Un Punto di Vista Junghiano sul Paziente Borderline

1.1 Uno sguardo generale sul disturbo borderline
Prima di introdurre il contributo di Schwartz-Salant al trattamento del paziente con disturbo borderline di personalità, trovo opportuno prendere in considerazione quanto evidenziano i principali studi sugli esiti del trattamento presenti in letteratura.Waldinger e Gunderson hanno valutato i risultati della psicoterapia col paziente borderline in base a quattro parametri: efficacia delle funzioni dell’Io, la capacità di controllare gli impulsi, la qualità delle relazioni oggettuali, il senso di sé. Hanno riscontrato che soltanto nelle funzioni dell’Io e nel comportamento impulsivo vi erano stati dei progressi significativi. I pazienti da loro presi in considerazione avevano raggiunto un sufficiente controllo degli impulsi e ritrovato la capacità di lavorare; mentre continuavano ad avere un senso di sé non del tutto chiaro e coerente, con delle relazioni esterne meno caotiche e instabili perché tenute ad una certa “distanza”. Gli autori hanno commentato la condizione dei loro pazienti con queste parole: “Le limitazioni residuali consistevano perlopiù in problemi legati alle relazioni intime; in modo particolare nel manifestare amore apertamente. Si potrebbe argomentare che una prosecuzione della terapia sarebbe opportuna al fine di migliorare anche questa sfera” ( Waldinger e Gunderson, 1987, pag. 219). Risultati simili sono stati pubblicati da McGlashan qualche anno dopo: “Molti tra i nostri pazienti cercavano di tenere a bada, almeno parzialmente, il loro forte bisogno di legami tramite l’attivo coinvolgimento in gruppi in cui il contatto era diffuso ma una certa distanza interpersonale era garantita dal contesto particolare” (McGlashan, 1993, pag. 260). Lo studio di questo autore è piuttosto importante sia per il numero piuttosto ampio di pazienti monitorati rispetto a Waldinger e Gunderson, sia perché ha elencato un insieme di caratteristiche rilevanti per il buon fine del trattamento, quali un Q.I. medio-alto, pochi episodi di abusi di sostanze, brevi periodi di ospedalizzazioni.
Ricerche più recenti sono state eseguite da Meares e Stevenson (1992, 1999) e da Bateman e Fonagy (1999). Entrambi gli studi hanno riportato risultati incoraggianti, tuttavia è stato dato poco risalto alla condizione relazionale, successiva al trattamento, raggiunta dai pazienti. Meares e Stevenson hanno notato progressi significativi nell’ambito lavorativo e nel numero di episodi violenza auto-inflitta; mentre Bateman e Fonagy hanno sottolineato sia come nei loro pazienti fossero diminuiti di circa il 90% i tentativi di suicidio, sia come fosse fortemente sceso il numero dei ricoveri ospedalieri.
Tuttavia una condizione relazionale non buona, dei pazienti presi in esame, possiamo dedurla dal fatto che Fonagy, in un successivo lavoro dove dedica ampio spazio al funzionamento borderline, scrive testualmente: “Di norma, i processi arcaici rimangono presenti, ma nascosti da più efficienti processi dell’Io ” (Fonagy, 2001, pag. 54).
Tutti questi studi, inoltre, riportando percentuali di abbandono della terapia, entro il primo anno dal suo inizio, vicine al 50%, segnalano la difficoltà nel mantenere l’alleanza terapeutica con il borderline. Una percentuale così alta di rinunce viene spiegata con le forti paure abbandoniche e con il caos relazionale che rendono, la usuale cornice terapeutica, spesso non in grado di reggere l’urto di questi pazienti.
Da questi studi citati si evince che il paziente borderline, seguito con una psicoterapia di orientamento dinamico, mostra tendenzialmente un rafforzamento dell’Io ma delle relazioni oggettuali non basate su una struttura interiore stabile.
La mancanza di una struttura interiore stabile ci porta a prendere in considerazione il contributo di Nathan Schwartz-Salant, il quale sottolinea come il paziente borderline abbia il Sé in una condizione “mortifera”. L’autore fa notare che il Sé non può essere morto o assente, per quanto le cose appaiano così, perché il Sé, come dice Jung, “è un fatto psichico autonomo” (Jung, 1944, pag. 187) che funge da agente centrale di regolazione della psiche in grado di armonizzare gli opposti. Tuttavia nel paziente borderline il Sé “nella sua immanenza, cioè nella sua esistenza entro la vita spaziale e temporale dell’Io, è incapsulato in un processo psicotico” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 20), cioè pare soprafatto da pulsioni primitive, stati compulsivi e più in generale dagli stati più oscuri della mente.
La mancanza di un Sé funzionante è ben testimoniata da tutta la sintomatologia della persona borderline che non può fare a meno di utilizzare meccanismi difensivi primitivi, quali la scissione, l’idealizzazione alternata con la svalutazione, il diniego, i comportamenti ossessivi, al fine di evitare una intensa sofferenza psichica generata da forti vissuti abbandonaci, legati ad un mondo interno incapace di fornire il necessario sostegno per procedere nei confronti della vita. In termini semplici si può dire che l’approccio di Schawartz-Salant è volto a far emergere un Sé in grado di dare ordine e senso alla vita del borderline.
Andando a scorrere la vasta letteratura sul paziente borderline si può notare come le varie teorie psicodinamiche abbiano provato a spiegare, proponendo varie ipotesi eziopatogenetiche , con le loro relative implicazioni terapeutiche, questa difficile condizione psicopatologica, senza tuttavia riuscire a superare i limiti segnalati dai follows-up citati in precedenza. Ciò è dovuto, secondo Schwartz-Salant, al fatto che un approccio esclusivamente discorsivo-razionale, che tende a far riferimento soltanto agli aspetti evolutivi del paziente, non è del tutto sufficiente a permettere una positiva evoluzione della fenomenologia degli stati mentali che caratterizzano il disturbo borderline. Il paziente borderline, secondo Schwartz-Salant, per poter trovare un senso al suo caos interno ed esterno, deve poter vivere all’interno della terapia un’esperienza di liminalità , capace di farlo entrare in un regno solitamente rimosso e inaccessibile alla coscienza, in grado di condurlo ad un rinnovamento.
Da questo punto di vista il paziente borderline, secondo la lettura che ne offre Schwartz-Salant, può essere descritto come una persona eternamente sospesa sul limitare di questa soglia, “in una dimensione in cui il potenziale non è mai in atto e in cui viene liberato un quantum di affetto grezzo che, se lasciato a sé, non va incontro ad elaborazione e rinnovamento” (Lingiardi V., 2001, pag. 82).
Le esperienze liminali non possono essere comprese facendo riferimento in maniera classica ai concetti di transfert-controtransfert, ma necessitano di un approccio immaginativo capace di “oggettivare” quanto avviene tra paziente e analista in un campo interattivo. L’oggettivare il campo interattivo “rivela l’esistenza di un complesso che ha governato l’inconscio sia del terapeuta sia del paziente”, pertanto “la scoperta dei fattori inconsci interattivi, scrive ancora l’autore, è il punto focale del mio approccio volto alla trasformazione delle strutture e delle energie che si riscontrano negli stati mentali borderline”(Schwartz-Salant, 1989, pag. 27).

1.2 Utilità della metafora alchemica per la comprensione del disturbo borderline di personalità

La letteratura sul disturbo borderline di personalità ha spesso evidenziato come nel trattamento di questi pazienti un ruolo di primo piano spettasse, ai fini di un miglioramento globale di questa condizione psicopatologica, all’identificazione proiettiva . Schwartz-Salant da questo punto di vista non fa eccezione, ma il suo modo di lavorare con l’identificazione proiettiva merita di essere approfondito, perché, secondo questo autore, l’identificazione proiettiva può essere usata dal paziente non solo per scopi difensivi, ma anche per “scopi esplorativi” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 178).
In proposito Schwartz-Salant rileva come nel lavoro di Jung l’identificazione proiettiva, di cui Jung parla implicitamente nel corso delle sue opere, sia legata ad una concezione di due inconsci che interagiscono, che vengono a contatto: “Il portatore di proiezione non è infatti un oggetto qualsiasi preso a piacere, ma è sempre un oggetto che si dimostra adeguato al contenuto da proiettare, un oggetto che offre per così dire un aggancio adatto a ciò che è destinato a sostenere” (Jung, 1946, pag. 291). Questo modo di vedere l’identificazione proiettiva, che non corrisponde ad un semplice mettere un contenuto del paziente nell’analista o viceversa, porta Schwartz-Salant a definire questo complesso meccanismo relazionale “esplorativo”, in quanto diviene “il mezzo attraverso il quale un individuo con una personalità borderline cerca di sanare il suo legame con l’inconscio” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 221). Proprio l’interazione dei due inconsci conduce l’autore statunitense ad interessarsi del campo interattivo.
Nel lavoro di Schwartz-Salant la nozione di campo interattivo è legata alla concezione quaternaria dell’incontro analitico, esposta da Jung in “La psicologia della traslazione”. Per Schwartz-Salant lavorare con il campo interattivo vuol dire di fatto cercare di cogliere l’evoluzione di questa struttura quaternaria in se, durante il corso della psicoterapia. Essendo l’evoluzione di questa struttura quaternaria non attribuibile esclusivamente al terapeuta o al paziente, preferisce collocarla in uno spazio fra i membri della coppia.
Schwartz-Salant predilige focalizzare la sua attenzione terapeutica su questo spazio terzo, perché considera “il campo interattivo intermedio tra il campo dell’inconscio collettivo e il regno della soggettività, e nello stesso tempo li interseca entrambi” (Schwartz-Salant, 1998, pag. 59). La consapevolezza di quest’area è ritenuta dall’autore “profondamente curativa” (Schwartz-Salant, 1998, pag. 59). In conseguenza di quanto appena detto Schwartz-Salant si sofferma su quei fenomeni “i cui processi possono essere percepiti soltanto dall’occhio dell’immaginazione” (Schwartz-Salant, 1997, pag. 177), perché il campo di per se non è rappresentabile .
Schwartz-Salant ritiene inoltre vantaggioso, ai fini terapeutici, riflettere sul campo interattivo perché il fare ciò evita che l’identificazione proiettiva obblighi, i due partecipanti del setting terapeutico, a comportarsi come se i loro tentativi di entrare in rapporto fossero dominati da un “copione”, da cui è difficile uscire, in grado di paralizzare la coppia analitica.
Il “vedere” attraverso un atto immaginativo, il cogliere in maniera metaforica l’interazione tra paziente e analista in questa terza area, riesce a colmare un’assenza di coscienza.
Schwartz-Salant, per spiegare come il suo approccio immaginativo debba basarsi su una forma di immaginazione legata anche al percepire le proprie sensazioni corporee , ritiene opportuno fare riferimento ai concetti alchemici di corpo sottile e imaginatio . Entrambi questi concetti si caratterizzano per il fatto che si riferiscono ad esperienze sia fisiche che mentali. Jung in “Psicologia e alchimia” definisce l’imaginatio “un’evocazione attiva di immagini interne” (Jung, 1944, pag. 167), che non è fatta solo “di spettri immateriali, come siamo soliti concepire le immagini fantastiche, bensì di qualcosa di corporeo, di un corpus sottile di natura semispirituale” (Jung, 1944, pag. 271). Questa imaginatio o immaginare, fa notare Jung, “è dunque anche un’attività fisica, che si inserisce nel ciclo delle trasformazioni materiali che determina e da cui a sua volta è determinata”, così si può dire che “l’imaginatio è dunque un estratto concentrato di forze vive, tanto corporee e quanto psichiche” (Jung, 1944, pag. 271).
Per riuscire a vedere questa dimensione intermedia tra paziente e analista, Schwartz-Salant, ritiene le tavole del Rosarium Philosophorum un valido sussidio per il proprio lavoro.
Prima di fermarmi sulla lettura che Schwartz-Salant propone in chiave interpersonale del Rosarium Philosophorum, trovo opportuno chiarire meglio perché l’autore faccia tanto ricorso ai concetti alchemici per comprendere il funzionamento del paziente borderline. Schwartz-Salant, nel suo testo “La Relazione. Psicologia, clinica e terapia dei campi interattivi” (1998), evidenzia come gli alchimisti procedessero nei loro processi trasformativi della materia senza che ci fosse una separazione tra i processi interni dello sperimentatore e l’esperimento stesso, in pratica per l’alchimista la trasformazione personale e quella materiale erano strettamente interconnesse. In altri termini significa che era presente un’unità di fondo nel processo. Per Schwartz-Salant è questa mancata separazione tra soggetto e oggetto che può essere utile nel relazionarsi al paziente borderline, in quanto permette di mentalizzare ciò che avviene nell’incontro terapeutico in termini di campo interattivo. Lavorare sul campo interattivo significa quindi provare a cogliere l’unicità dell’incontro con l’altro, unicità che “riunisce differenti ordini di realtà, come materia e psiche” (Schwartz-Salant, 1998, pag. 42) e che è ben diversa, come vedremo più avanti, dalla fusione.
Tornando a discutere della lettura metaforica che Schwartz-Salant propone del Rosarium, volta a cogliere “la relazione in se” con il paziente borderline, ci sono almeno un paio di considerazioni globali dell’autore che meritano, a mio avviso, di essere approfondite, perché differiscono notevolmente dall’interpretazione avanzata da Jung. La prima tavola del Rosarium Philosophorum, la fontana mercuriale, secondo Schwartz-Salant mostra bene il caos relazionale in cui ci si imbatte con un borderline, perché riflette adeguatamente la contemporanea presenza di fusione e distanza presente nella relazione analitica, mentre per Jung la stessa tavola “tenta di raffigurare il misterioso fondamento dell’Opus” (Jung, 1946, pag. 210).
Jung definisce la fontana mercuriale una”quaternità quadratica” contenente tutti gli elementi, che tuttavia sono in un rapporto conflittuale tra loro (Jung, 1946, pag. 213). Secondo Jung “nel quadrato gli elementi tendono a staccarsi, respingersi reciprocamente, sono vicendevolmente ostili e perciò devono essere unificati nel cerchio” (Jung, 1946, pag. 210). Quindi, mentre per Jung la fontana mercuriale rappresenta quello stato iniziale di Mercurio capace di permettere le successive trasformazioni della materia, sulla quale l’alchimista proiettava il proprio processo di individuazione, per Schwartz-Salant rappresenta verosimilmente lo stato iniziale del campo interattivo in cui ci trova con un paziente borderline.

“La fontana mercuriale”
Scendendo maggiormente nei dettagli dell’interpretazione di Schwartz-Salant possiamo notare come la distanza la veda rappresentata dalle parti alte e basse, mentre l’aspetto fusionale lo vede legato alla presenza di fumi, che se da una parte fungono da elementi di collegamento, dall’altra impediscono al sole e alla luna di entrare in relazione tra loro. Schwartz-Salant rimarca come fusione e distanza non permettano di cogliere la propria individualità, perché fanno si che la persona sperimenti una indifferenziazione e contemporaneamente una distanza incolmabile dall’altro . Secondo l’autore, una persona con un disturbo borderline di personalità, può essere fusa con l’inconscio di un’altra persona e distante a livello cosciente o viceversa. Questa relazione basata sulla fusione-distanza ha un effetto del tutto paralizzante sulla capacità di entrare realmente in contatto con l’altro.
In secondo luogo Schwartz-Salant, basandosi sull’interpretazione della prima tavola come una potenziale rappresentazione dello stato iniziale del campo interattivo con un borderline, considera le altre tavole una possibile sequenza di momenti relazionali di coniunctio-nigredo , che può manifestarsi nel campo interattivo, in grado di far emergere una struttura interiore più stabile. Invece, seguendo l’interpretazione offerta da Jung del Rosarium, le tavole successive costituiscono varie fasi di un processo culminante in una congiunzione dei vari elementi intrapsichici.
Concludendo si può così affermare che secondo Schwartz-Salant, questo testo alchemico, è utile, non perché colga esattamente quello che accade con il paziente borderline, ma perché costituisce una metafora da tenere a mente per percepire immaginativamente quanto accade a livello di campo interattivo nell’incontro analitico.

1.3 Lavorare con il campo interattivo

Da quanto detto nel paragrafo precedente si può facilmente notare come la nozione di campo interattivo sia legata al modo di pensare l’incontro analitico: il non basare l’intera psicoterapia su interpretazioni scaturite dal proprio contro-transfert permette di riflettere su quanto accade con il paziente borderline in termini di terza area, perché, una volta focalizzata l’identificazione proiettiva, “non interessa più quali siano le parti della psiche che appartengono a uno o all’altro” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 190). Lavorare con il campo interattivo significa quindi, in alcune fasi del rapporto terapeutico, fare a meno delle metafore spaziali, più o meno esplicitamente presenti nella formulazione classica della identificazione proiettiva, in favore di una concezione più unitaria dell’incontro con il paziente.
Per Schawartz-Salant è fondamentale lasciare a questa terza area una certa autonomia, in modo tale da permetterle di manifestare i suoi effetti trasformativi. Concretamente l’autonomia del campo interattivo passa attraverso il non ridurre il materiale presente in esso a “proiezioni che devono essere ritirate”, per far si che il focus dell’analisi si sposti dalle interpretazioni riguardanti gli oggetti parziali al “potenziale creativo dell’identificazione proiettiva“ (Schwartz-Salant, 1989, pag. 191). Secondo Schwartz-Salant, il campo interattivo, essendo il “regno delle relazioni in sé”, facilita il paziente nell’incrementare la sua capacità di creare legami più stabili e duraturi , rispetto a quanto solitamente avviene in una persona con funzionamento borderline.
Il campo interattivo si può dispiegare solo se entrambi i partecipanti si concentrano e impegnano su di esso. Concentrazione e impegno verso il campo interattivo implicano l’essere ambedue osservatori e partecipanti degli stati mentali e affettivi presenti, in un determinato momento, in questa area intermedia.
Nel modo di procedere di Schwartz-Salant è possibile notare come il primo passo nel rapportarsi al campo interattivo consista in una descrizione di quegli stati che caratterizzano il campo stesso. Così si può parlare di un campo dominato da angoscia, da persecuzione, da aspetti sessuali e via dicendo. La sola descrizione di un campo non è tuttavia sufficiente per liberare degli affetti potenti, bensì è una pre-condizione, sempre secondo Schwartz-Salant, per l’utilizzo del suo approccio immaginativo.
Un approccio terapeutico con il paziente borderline, come quello proposto da Schwartz-Salant, presenta due caratteristiche che sembrano essere, considerati i follows-up citati, utili nella psicoterapia di questa condizione psicopatologica: il lavoro immaginativo con il campo interattivo può fornire un contenimento al paziente; il cogliere nel campo interattivo l’esperienza della coniunctio-nigredo potrebbe facilitare un’evoluzione della struttura psichica interiore del paziente borderline.
Riguardo al primo punto possiamo evidenziare come, l’approccio di Schwartz-Salant, tenti di vedere la totalità dell’esperienza del paziente nel campo. Infatti, scrive l’autore, il campo è “di fatto un vaso immaginario che contiene e permette di esperire le parti frammentate di una personalità” (Schwartz-Salant, 1998, pag. 143). Ciò è davvero importante perché, come ha notato Kernberg (che non utilizza il concetto di campo) nel suo lavoro “Psicoterapia delle personalità borderline”, per il paziente verificare che c’è uno spazio che permette di tollerare e lavorare con i suoi aspetti più negativi e caotici è la dimostrazione che la terapia può contenere l’intensità e la confusione della sua esperienza.
Da questo punto di vista il campo può costituire un contenitore proprio perché potrebbe essere quello spazio, di cui parla Kernberg, che offre una possibilità di “oggettivare”, di trasformare in immagini, anche ai contenuti più negativi e caotici del paziente.
La seconda caratteristica basilare del campo interattivo è il suo suscitare l’esperienza della coniunctio-nigredo. Secondo Schwartz-Salant nella coniunctio, la diade paziente-analista, è caratterizzata dal vivere una relazione analitica dominata da una qualità di parentela. La libido parentale, insita quindi nei momenti di coniunctio, è un ottimo aiuto per il mantenimento e il rafforzamento dell’alleanza terapeutica. Inoltre, Schwartz-Salant, attribuisce una particolare importanza alla coniunctio, in una terapia con un borderline, non solo ai fini dell’alleanza terapeutica, ma anche perché essa è “un modello di energia nel quale si uniscono gli opposti, in particolare la fusione e la distanza, in perfetta armonia” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 75). Nella persona emerge qualcosa di nuovo che tende a manifestarsi con una trasformazione delle figure interiori di Anima e di Animus , ben osservabile nei sogni seguenti la coniunctio, le quali iniziano a fornire sostegno anziché essere figure persecutorie.
Tuttavia i momenti di unione sono seguiti anche da forti fasi depressive e di distacco, che conducono ai vissuti più radicati della persona borderline, vissuti pervasi da un senso di vuoto e di morte. Secondo l’esperienza di Schwartz-Salant ciò avviene perché, “supportati dalla grande fiducia e dal contenimento che provengono dalla coniunctio, paziente e terapeuta possono arrischiare una maggiore apertura, per esempio possono far entrare nella terapia intensi stati di odio e di rabbia ed elaborarli” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 87). Questa dinamica del campo fatta di unione-abbandono permette quindi di esplorare molti aspetti evolutivi del paziente: perdite precoci, impossibilità nel separarsi dalle relazioni primarie, mancanza di una presenza simbolica interiore che dia ordine e supporto.
Schwartz-Salant ovviamente prende in considerazione gli aspetti evolutivi che emergono nel corso della psicoterapia, tuttavia ribadisce che, per far si che il paziente ottenga una struttura interiore più stabile, non è sufficiente che questi abbia soltanto una maggiore consapevolezza delle relazioni oggettuali. Per Schwartz-Salant è possibile far emergere il Sé del paziente borderline solo attraverso uno sfruttamento del potenziale di rinnovamento insito nel movimento ritmico del campo interattivo, fatto di fasi alternanti coniunctio-depressione, che tende verso “una forma combinata che trascende gli oggetti originali” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 91). In parole semplici, secondo Schwartz-Salant, il movimento ritmico del campo interattivo da luogo ad “un’immagine del Sé che congiunge” che “può essere significativamente introiettato per creare una struttura ermafrotidica del Sé interiore” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 214)
In base a quanto detto sinora è importante notare come un punto critico della psicoterapia basata sul campo interattivo, fortemente orientata verso un’unione degli opposti, segnalato dallo stesso Schwartz-Salant, potrebbe essere la resistenza dell’analista verso gli stati di nigredo in grado di generare sofferenze e ferite anche nel terapeuta. Quest’ultimo potrebbe preferire soffermare la sua attenzione sulle prime esperienze di unione, certamente più piacevoli rispetto agli stati di estremo distacco. Il non vivere e il non porre la dovuta attenzione alle fasi di nigredo, finirebbe con il rendere la coniunctio un momento seduttivo nei confronti di una persona che ha già vissuto situazioni analoghe.
Il terapeuta, per giungere ad un’unione maggiormente stabile, dovrebbe quindi sempre cercare di valutare la qualità strutturale della coppia della coniunctio. Avere questa consapevolezza sarebbe di estrema rilevanza perché, se da una parte l’unione si caratterizza per l’essere sentita come un legame parentale, dall’altra c’é il rischio che si venga travolti dai potenti affetti, spesso di natura erotica, presenti nella coniunctio stessa. Avere una consapevolezza in proposito può aiutare l’evoluzione dello stato di unione ed evita agiti che con il paziente borderline sono sempre dietro l’angolo.
Una forma di coniunctio più solida permette, a giudizio di Schwartz-Salant, un progressivo sviluppo di un Sé portatore di valori più femminili nella coscienza, potenzialmente rigeneranti.
Un Sé in itinere, in incarnazione volendo usare la terminologia di Schwartz-Salant, più aperto ad aspetti femminili è maggiormente propenso ad entrare in relazione, dove è preminente la dimensione dell’essere rispetto a quella del fare. Il terapeuta, osserva Secondo Schwartz-Salant, il terapeuta, per facilitare questo processo di incarnazione del Sé, nel momento in cui stanno venendo meno le illusioni, le distorsioni, i dinieghi e le scissioni, è fondamentale che mantenga un atteggiamento di fiducia verso il Sé del paziente.
Questo atteggiamento di fondo è basilare, sempre secondo il punto di vista di Schwartz-Salant, per creare le condizioni affinché si manifesti una nuova coniunctio dove l’equilibrio tra fusione e distanza dall’altro sia realmente in grado di permettere di divenire se stessi.

1.4 Alcuni psicologi analisti inglesi a confronto con il paziente borderline

La psicologia analitica inglese tendenzialmente si caratterizza per un’apertura al confronto con la scuola delle relazioni oggettuali e di ciò possibile trovarne un’eco anche nel lavoro con il paziente afflitto da disturbo borderline di personalità. Come sottolinea Alan Edwards, nel suo scritto “Borderline States: disorder of the Self”, autori come la Klein, Bion, Winnicott, Rosenfeld e Balint, con i loro concetti di posizione schizo-paranoide e posizione depressiva, elementi beta e funzioni alfa, di madre sufficientemente buona, di fantasie inconsce ect.., hanno un ruolo significativo nell’influenzare il modo di rapportarsi al paziente borderline da parte degli analisti junghiani.
Sintetizzando brevemente il lavoro di Edwards possiamo notare come provi a tenere costantemente presente in che modo il Sé primario postulato da Fordham, con i suoi movimenti di deintegrazione-integrazione, venga influenzato nel suo sviluppo dal ruolo degli oggetti.
Edwards, partendo da queste premesse teoriche, asserisce che, mentre nello sviluppo normale le continue deintegrazioni-integrazioni non intaccano né la costanza degli oggetti né quella del Sé, la stessa cosa non avviene per una persona con un funzionamento borderline. Nel paziente borderline è possibile osservare sia scissioni nell’Io che nel Sé, e ciò ne spiega tutti quegli aspetti, come la diffusione d’identità, la mancata integrazione dell’immagine corporea, il senso di vuoto, le fantasie di disintegrazione, che si riscontrano frequentemente nel trattamento del paziente con disturbo borderline di personalità. Per evitare ulteriori deintegrazioni del Sé il Sé del borderline si chiude. In molti di questi pazienti, dice Edwards, facendo sue delle considerazioni analoghe della Bunster e di Fordham, il Sé sembra incapsulato e inaccessibile.
Considerato che al paziente borderline è mancato un ambiente facilitante nel far emergere il suo Sé, durante l’analisi ben presto il terapeuta si troverà egli stesso nella situazione di sperimentare pesanti affetti, dolore, ansia di disintegrazione, confusione e una grande difficoltà nel non scindersi.
Il primo compito dell’analista, sostiene Edwards, è quindi quello di riuscire a mantenere la propria interezza dinanzi ad un paziente, complessivamente funzionante in maniera primitiva, che propone un livello di comunicazione sostanzialmente non verbale.
Ai fini di una buona riuscita della psicoterapia con il borderline è fondamentale che il paziente stesso riesca a rapportarsi e a far crescere il suo Sé, non a caso paragonato da molti autori inglesi, con Fordham in primis, ad un bambino interno, che necessita di dispiegarsi nella quotidianità della persona.
Edwards fa notare come per il paziente rapportarsi al suo Sé costituisca un compito estremamente difficile. Infatti, anche nel caso in cui il paziente fosse riuscito a comprendere almeno in parte le sue continue evacuazioni di affetti, le espulsioni e le introiezioni legate all’identificazione proiettiva, avrebbe comunque un rapporto molto ambivalente verso quest’area definita poco sopra del bambino interno. In proposito Jane Bunster sostiene che per il paziente, avvicinarsi al suo Sé, significhi di fatto fare i conti con la paradossale e terrificante immagine della madre primordiale , che nella sua esperienza ha manifestato soprattutto il suo aspetto di morte.
Tutto ciò crea inevitabilmente delle difficoltà anche all’analista, almeno per un paio di ragioni: in primo luogo nella psicoterapia assume un ruolo di primo piano un transfert fortemente negativo, pieno di rabbia e di distruttività; in secondo luogo, il paziente, per evitare intrusioni in un’area delicata e vulnerabile come quella del bambino interno, dove l’altro è facilmente vissuto come avente un potere enorme rispetto a se stessi, si chiude in maniera ermetica.
Fordham rimarca come il terapeuta, per superare le difficoltà appena segnalate, dovrebbe relazionarsi al paziente come se non conoscesse nulla di lui, per mettersi nella condizione di essere contagiato affettivamente ed emozionalmente. Questo atteggiamento, secondo Fordham, dovrebbe essere accompagnato dal provare sempre a cogliere quale è l’effetto del paziente sull’inconscio del terapeuta, per poi poter lavorare attraverso di esso.
Il lavoro sul controtransfert, suggerisce Edwards, in accordo sia con Fordham che con la Bunster, dovrebbe aiutare nel riuscire a cogliere le esperienze del paziente in maniera integra. Il lavoro sul proprio sentire, secondo gli autori, è una premessa necessaria per poi poter focalizzare le proprie interpretazioni sul bambino interno del paziente e sulla necessità di imparare a contenerlo. Un atteggiamento empatico e di contenimento verso il bambino interno del paziente, sostengono gli autori citati, offre al Sé la possibilità di iniziare a sperimentare quei confini, quella “pelle” , che sono mancati per poter avere la necessaria fiducia nell’archetipo centrale, di cui il paziente va lentamente prendendo consapevolezza. Terminando la sua illustrazione, riepilogativa del proprio lavoro e di altri, Edwards evidenzia come per il paziente borderline realizzare l’esistenza di un Sé primario è di estrema importanza, sia perché fa aumentare la propria self-confidence, sia perché fa crescere le possibilità di instaurare un rapporto positivo con le proprie risorse interne.

1.5 Un breve approfondimento conclusivo sul lavoro di Schwartz-Salant

Guardando il lavoro di Schwartz-Salant e quello proposto da Edwards emerge un elemento in comune: il Sé è considerato in una condizione “mortifera” da Schwartz-Salant e “incapsulato” nella visione di Edwards. Il ricollegarsi al Sé e il permettergli di aprirsi alla vita è un qualcosa di basilare in entrambe le impostazioni, un qualcosa di cui il processo di guarigione non può fare a meno.
Il come si prova a realizzare questo obiettivo nella pratica analitica differisce invece molto. Quello che balza agli occhi è una marcata diversità nel modo di rapportarsi al paziente borderline: mentre Schwartz-Salant è per così dire molto aperto, gli autori inglesi presi in considerazione sottolineano l’importanza della “prudenza” nell’avvicinarsi al Sé del paziente.
Questa diversità di approccio, pare essere collegata ad una differente concezione dell’identificazione proiettiva: mentre nel lavoro di Schwartz-Salant la focalizzazione dell’identificazione proiettiva costituisce un primo passo verso l’utilizzo di un approccio immaginativo, in una terza area, tra paziente e analista, nel lavoro di Edwars l’identificazione proiettiva è pensata con un’ottica kleiniana ed è usata principalmente per riuscire a cogliere e a sintonizzarsi sugli stati affettivi del paziente.
Il modo di Schwartz-Salant di intendere l’identificazione proiettiva risente dell’influenza del lavoro di Rosemary Gordon, “The concept of the projective identifiction” (1965), nel quale l’autrice fa un confronto tra l’identificazione proiettiva e la partecipation mystique. La Gordon fa notare come la Klein, nel suo uno scritto “The emotional life of the infant” (1952), parlando di un bambino che svuota, fa suo, il seno della madre, di fatto avvicini il suo concetto di identificazione proiettiva alla definizione data da Jung di partecipation mistyque (1921), dove Jung mette in risalto come il soggetto sentendo una determinata qualità nell’oggetto lo assimili a se.
Al di là delle analogie, la Gordon, in questo suo confronto sottolinea anche le differenze tra Jung e la Klein, evidenziando come il processo descritto da Jung fosse, non solo più ampio rispetto a quello osservato dalla Klein, la quale collegava l’identificazione proiettiva alla posizione schizo-paranoide, ma puntasse anche al bisogno di unione e alla successiva creazione di nuove strutture.
Schwartz-Salant, facendo sue le considerazione della Gordon su partecipation mystique e identificazione proiettiva, osserva come in ambito terapeutico ci si possa trovare sia davanti ad una relazione paziente-analista, in grado di guidare la diade verso un’esperienza di unione, sia dinanzi ad una diade dominata da un utilizzo difensivo dell’identificazione proiettiva, necessaria per affrontare i conflitti, per separare aspetti accettabili da quelli inaccettabili di se, per controllare l’altro.
In ogni caso, Schwartz-Salant, davanti ad entrambe le situazioni cliniche, predilige utilizzare il termine identificazione proiettiva, senza ricorrere al termine partecipation mystique, proprio per rimarcare che le possibilità di trasformare una determinata struttura psichica dipendono, non solo da un fatto naturale come la partecipation mystique , ma anche dall’utilizzo di un approccio clinico immaginativo, legato al campo interattivo, in grado di rendere l’usuale identificazione proiettiva il punto di partenza di un processo trasformativo.
Il fatto che Schwartz-Salant nel suo modo di lavorare ponga l’accento, a differenza di Edwards, sul non considerare l’identificazione proiettiva solamente come un meccanismo di difesa, bensì anche sul suo aspetto potenzialmente esplorativo, potrebbe essere parzialmente dovuto al diverso funzionamento dei pazienti borderline descritti dai due autori.
Infatti, mentre i soggetti borderline raccontati da Edwards mostrano di aver subito una precoce e fortissima deintegrazione del Sé, sulla quale si è poi innescata una onnipresente identificazione proiettiva, i casi trattati da Schwartz-Salant pare che abbiano avuto particolari difficoltà, legate a tematiche abbandoniche, nel separarsi dagli oggetti primari.
Si può quindi ipotizzare che i pazienti borderline di Schwartz-Salant avessero, rispetto ai pazienti di Edwards, comunque una maggiore distinzione tra il Sé e gli oggetti e un Io sostanzialmente meno indebolito. Ciò ci può indurre a pensare che le identificazioni proiettive osservate da Schwartz-Salant fossero, in un certo senso, meno “difensivamente pesanti” (permettessero cioè di lavorare con l’approccio immaginativo al campo interattivo), rispetto a quelle vissute da Edwards, proprio perché i suoi pazienti avevano comunque un livello di funzionamento globalmente migliore rispetto ai pazienti osservati dall’’autore inglese.
Questa diversità di funzionamento , nonostante si tratti di pazienti con la stessa diagnosi, non deve sorprendere quando il tutto è legato al disturbo borderline di personalità. Se si considera che la diagnosi di questa condizione psicopatologica viene fatta quando sono presenti 5 dei 9 criteri elencati nel Dsm IV, indipendentemente da quali essi siano, dato che hanno tutti lo stesso peso, accade, come fa notare Lingiardi, “che sotto la stessa sigla vengono raccolti soggetti con caratteristiche spesso molto diverse” (Lingiardi V., 2001, pag. 147).
Tuttavia, anche prescindendo dal diverso modo di concepire l’identificazione proiettiva, e dalla probabile diversità di funzionamento nei pazienti di Schwartz-Salant rispetto a quelli segnalati da Edwards, rimane comunque opportuno cercare di capire se l’approccio aperto di Schwartz-Salant possa presentare dei rischi più o meno impliciti per il percorso psicoterapeutico.
Nel modello clinico di Schwartz-Salant è evidente che la relazione tra paziente e analista, esposta attraverso una lettura interpersonale delle tavole alchemiche del Rosarium Philosophorum, giochi un ruolo curativo di primissimo piano necessario per far riprendere, utilizzando le parole dell’autore stesso, ciò che “viene chiaramente colto come arresto a un certo stadio di un intero processo” (Schwartz-Salant, 1989, pag. 92). Anche se l’obiettivo ultimo di Schwartz-Salant è far emergere un Sé in grado di dare stabilità, il primo effetto della coniunctio è il verificarsi dell’introiezione di una relazione, e considerato quanto solitamente il paziente borderline sia carente di oggetti interni supportivi, ciò non può che essere visto come un traguardo positivo. Del resto, come osserva David Sedgwick (1994), per molti analisti il fattore terapeutico per eccellenza è costituito dall’introiezione di un “oggetto buono”, ma “il modo in cui questo obiettivo viene raggiunto, o il modo in cui si immagina che succeda, può determinare la rivelazione esplicita del controtransfert” (Sedgwick, 1994, pag. 249). Dato che non si può affermare, argomenta Sedgwick (1994), con assoluta certezza cosa determini l’introiezione dell’analista, si può supporre che il disvelamento del proprio controtransfert, sia influenzato dai giudizi più o meno impliciti sull’importanza “dell’aprirsi” a tal proposito.
Sedgwick, che ha pubblicato una delle rassegne più ampie sul controtransfert da parte di un autore junghiano, osserva come per quanto riguarda la rivelazione del proprio controtransfert è possibile distinguere tre posizioni: ci sono analisti conservatori che non fanno nessuna apertura, quelli moderati che esprimono in maniera selettiva aspetti controtransferali, ed infine i radicali che fanno un uso più libero, ma non avventato del proprio sentire. Sedgwick conclude la sua panoramica sostenendo che ogni analista si affida principalmente alla propria sensibilità, alla sua valutazione dello stato della relazione con il paziente, alla propria esperienza, ed è praticamente impossibile affermare che esista una posizione migliore delle altre in tutte le circostanze. In sostanza raccomanda flessibilità e una riflessione sulla capacità del paziente di accogliere determinato materiale.
La linea suggerita da Sedgwick è stata già anticipata da altri autori: per esempio la Gordon, autrice peraltro apprezzata da Schwartz-Salant, ha affermato che dopo aver compreso il materiale analitico l’analista “deve poi decidere se comunicare al paziente le sue reazioni emotive e, se si, sotto quale forma e quando” (Gordon, 1968, pag. 181). Da questo punto di vista Schwartz-Salant potrebbe sopravvalutare la forza del paziente, facendo delle rilevazioni, come dice la Bunster, troppo “intrusive”.
Considerando che lo psicoterapeuta statunitense è ritenuto, da Sedgwick, il più radicale tra i radicali viene spontaneo pensare che Schwartz-Salant, immergendosi totalmente nel campo immaginale, corra il rischio di smarrire, nelle situazioni solitamente caotiche in cui pone il paziente borderline, quella flessibilità accompagnata da riflessione necessaria nel contesto analitico.
Secondo Samuels, Schwartz-Salant, rischia di estremizzare eccessivamente il suo approccio legato al campo interattivo, per altri versi utile, cercando, scrive in un commento al lavoro dell’autore statunitense, “troppo attivamente la vista immaginale” (Samuels, 1989, pag. 172).
La critica di Samuels alla tecnica di Schwartz-Salant mi pare particolarmente significativa perché proviene da un autore il quale fa anche egli riferimento ad uno spazio condiviso tra paziente e analista, un “mundus imaginalis condiviso” (Samuels, 1985, pag. 59), e che non dimentica di utilizzare il corpo e le immagini nel suo lavoro con il controtransfert. Concludendo posso dire che i rilievi mossi da Samuels a Schwartz-Salant mi pare che ben evidenzino quello che può essere il pericolo in cui rischia di cadere Schwartz-Salant: l’eccessiva unilateralità, la quale, come ha osservato Jung, porta ad “una sopravvalutazione di concezioni dotate di fondamento scientifico” (Jung, 1954, pag. 237).

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