Potenzialità del Lavoro per il Paziente Inserito in Comunità Terapeutica

Uno dei principali obiettivi terapeutici di qualunque Comunità Terapeutica Riabilitativa è certamente quello di aumentare l’autonomia, definibile in senso lato come la capacità di occuparsi di sé, della persona. Considerata tale premessa, un percorso riabilitativo non può tralasciare di occuparsi anche del reinserimento lavorativo e sociale del paziente. Da un punto di vista clinico, il paziente psicotico pare caratterizzato dall’avere un Io “destrutturato” (Jung 1916) non in grado di reggere la pervasività dei contenuti inconsci personali ed archetipici. Ricorrendo ad un linguaggio visivo possiamo immaginare che nella persona psicotica la compattezza dell’Io si è come dissolta fra dei nodi psichici, paragonabili a frammenti rocciosi, che hanno minato e frantumato la personalità nel suo complesso. In un certo senso è come se la persona psicotica si trovasse in un labirinto psichico che le tormenta il pensiero e le emozioni.

Il lavoro, visto tale quadro clinico, è uno di quegli strumenti riabilitativi che permette all’Io di ritrovare la sua compattezza interna. Aumentando le competenze concrete, facendo entrare in contatto con gli altri, facilitando lo scambio e le relazioni, il lavoro di fatto incide positivamente su un’autostima che nel paziente si trova ridotta ai minimi termini. Più in generale, e tenendo ben in mente un’ottica riabilitativa, possiamo affermare che il reinserimento lavorativo del paziente aiuta l’Io a ritrovare una certa unità interna perché rafforza l’Io stesso del paziente. Proviamo a vederne il perché facendo una breve digressione.

Ne “Il disagio della civiltà” (1929) Freud va oltre l’idea di lavoro inteso come un impegno coercitivo irriducibilmente in antitesi al piacere, per approdare verso un’idea di lavoro che coniughi la possibilità di adattarsi alla realtà e di soddisfare allo stesso tempo alcune esigenze pulsionali. Più esattamente afferma: “Nessuna altra tecnica di condotta della vita lega il singolo così strettamente alla realtà come il concentrarsi sul lavoro…La possibilità di spostare una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche e persino erotiche sul lavoro professionale conferisce al lavoro un valore per nulla inferiore alla sua indispensabilità per il mantenimento e la giustificazione del singolo nella società”. Discorso analogo viene avanzato dall’altro grande padre della psicologia del profondo, Jung, secondo il quale il lavoro può essere considerato una sorta di simbolo trasformatore dell’energia psichica perché permette un “travaso su un analogo dell’oggetto pulsionale” (Jung, 1928, in “Energetica psichica”). Secondo Jung, per esempio, nel momento in cui uno schizofrenico, generalmente simbiotico con la propria madre, inizia a lavorare la terra tende gradualmente a spostare la sua energia psichica dalla madre su di un altro oggetto, ovvero sulla madre-terra.

Il lavoro, come ricaviamo implicitamente dalle argomentazioni di Freud e Jung, costituisce quindi uno strumento per aprirsi alla realtà esterna. Tale apertura che consente il lavoro dischiude la possibilità di un passaggio dal frequentare solo il mondo chiuso della comunità terapeutica di appartenenza verso un poter far parte di un contesto sociale più ampio. Il rientro con un lavoro nel contesto sociale di appartenenza potrebbe quindi rivestire un valore particolare per il paziente grave, perché potrebbe aiutarlo nel riacquisire un’identità sociale positiva fondata su un senso di utilità personale e sulla percezione di una significativa inclusione sociale.

Tuttavia è sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori e non che non sempre il reinserimento lavorativo permette alla persona psicotica di ridefinire la propria identità in senso positivo, anzi talvolta il lavoro stesso non fa che rinforzare la tendenza della persona ad identificare se stessa con la sua condizione psicopatologica. Detto in altre parole, una persona schizofrenica, che già di suo è propensa a giudicarsi malata senza vedere altri aspetti di sé, può percepirsi ancor più esclusa, diversa e disabile proprio a causa del lavoro che svolge. Infatti un lavoro in cui il paziente si trova isolato, non a contatto con altre persone, in una mansione che di fatto non richiede nessun impegno o capacità, finisce con il danneggiare la persona psicotica più che con l’aiutarla. Un lavoro del genere rischia di accentuare in misura ancora maggiore di quanto già non sia la frattura che la persona psicotica vive quotidianamente con il resto del mondo. Viene di conseguenza piuttosto spontaneo chiedersi: “In che circostanze il lavoro per il paziente psichiatrico esercita una funzione benefica sulla sua condizione psichica?”.

Per rispondere a tale questione è necessario fare un brevissimo cenno al quadro normativo  italiano riguardante il reinserimento lavorativo di persone disabili. La legislazione in materia del nostro paese dispone di due strumenti in grado di favorire l’occupazione delle persone in condizioni svantaggiate: la legge, 308/1991, disciplinante la cooperazione sociale; e la legge 68/1999 che introduce il concetto di “collocamento mirato”. Sinteticamente ricordiamo che le cooperative sociali di tipo B devono avere almeno un 30% di soci svantaggiati, e che il concetto di collocamento mirato permette una “scelta”, un incontro, tra l’azienda e il lavoratore, superando l’idea che l’impresa debba attingere il lavoratore da una graduatoria, basata sull’anzianità di iscrizione, senza nemmeno conoscere il lavoratore disabile.

Una Comunità Terapeutica Riabilitativa che voglia agire veramente come tale, non può tuttavia limitarsi ad utilizzare il quadro legislativo italiano soltanto per “collocare” il suo paziente, bensì dovrebbe avere sia il coraggio di prestare attenzione alla qualità del lavoro che egli è eventualmente chiamato a svolgere, sia essere determinata nel costruirgli una rete sociale intorno solo con quei soggetti, quali Cooperative, Associazioni, Centro per l’Impiego, imprese, che vogliano realmente “aprirsi” al contatto con la persona psicotica e offrirle una vera opportunità di mettersi in gioco. In altre parole, il paziente inserito in comunità ha bisogno di un lavoro vero e non della benevola carità di qualche cooperativa sociale o peggio ancora di qualche azienda, obbligata a rispettare la legge 68/1999, che di fatto assume il paziente senza realmente però farlo entrare a far parte dell’azienda.

Per far sì che il reinserimento lavorativo sia utile e non dannoso, la comunità ha forse solo una strada a sua disposizione: aiutare il paziente a trovare un lavoro riabilitativo. Un lavoro capace cioè di impegnare la persona a livello emotivo e cognitivo, in qualcosa che senta intimamente suo, e non un qualcosa di puramente assistenziale. Per cogliere meglio questo aspetto sia consentito il ricorso alla storia, raccontata da Simon Winchester nel bel libro “Il Professore e il Pazzo” e da cui è stato tratto nel 2019 l’omonimo film [1],  di William Chester Minor, medico chirurgo dell’esercito degli Stati Uniti costretto al prepensionamento a causa di una diagnosi di schizofrenia paranoide. In sintesi, la storia è questa: il dottor Minor, affetto da allucinazioni via via sempre più cruente nelle quali vede un uomo che lo perseguita come un’ombra sempre in agguato, dopo che egli durante la guerra di secessione americana lo aveva marchiato con il fuoco in quanto disertore, decide in virtù di ciò di fuggire nella lontana Inghilterra nella speranza che il persecutore lo lasci in pace. Non va affatto così, infatti una volta espatriato e in preda ad una delle ormai usuali allucinazioni uccide l’innocente George Merrett, padre di sei figli [2], convinto che fosse il soldato disertore. Così il dottor Minor finisce nel manicomio di Broadmoor. Qui, dopo aver salvato la gamba ad un secondino, gli vengono concesse delle libertà, notevoli per quel periodo storico, all’interno della struttura. Può dipingere, può leggere, e in maniera fortuita la sua vicenda personale si incrocia con quella del professor James Murray [3]. Quest’ultimo è un linguista accademico alquanto atipico di Oxford, impegnato nell’ambizioso progetto di dar luce al primo dizionario etimologico e storico di Oxford. In difficoltà dinanzi a questo compito proibitivo per quel periodo, il professor Murray invita tutti i cittadini a inviargli materiale per il suo lavoro e inizia così a ricevere un contributo veramente prezioso ed enorme da parte del dottor Minor. Talmente importante è il contributo di Minor, sempre nel frattempo rinchiuso a Broadmoor, che Murray sentirà l’esigenza di conoscerlo personalmente e di diventarne poi intimo amico. I due saranno impegnatissimi in questo progetto per il resto delle loro vite, e solo qualche anno dopo le rispettive morti il dizionario di Oxford vedrà la sua prima edizione. Potremmo chiederci: “ Come sarebbe stata la vita del dottor Minor se non avesse l’opportunità di lavorare al dizionario?” E’ una domanda volutamente retorica, sulla quale non ci soffermeremo molto, perché è evidente che senza questo lavoro l’esistenza, già resa complicata dalla malattia, del dottor Minor sarebbe stata decisamente peggiore. Questa storia, romantica e commovente per alcuni versi, viene qui citata perché rende bene l’idea di cosa sia un lavoro significativo per un paziente affetto da una psicosi grave: un qualcosa che permetta a quel determinato essere umano di esprimere tutta l’umanità di cui è portatore. Tutto ciò si verifica di rado, e uno psichiatra di grande spessore come Franco Basaglia può aiutarci a comprendere come una delle ragioni [4] del perché ciò non accada sia legata alla non completa evoluzione della cultura psichiatrica e riabilitativa rispetto al secolo scorso. Secondo Basaglia è necessario distinguere tra malattia e follia. La malattia implica la presenza di un oggetto che va solo studiato, mentre la follia la presenza di un soggetto sofferente. La malattia corrisponde ad un “qualcosa – per usare le parole dell’Autore – che non è bene, che è anormalità, che non è produttiva, che esce dalla logica del sistema sociale”, mentre “la follia è una delle molteplici possibilità dell’umano. [5] Da questa angolazione la malattia è un corpo estraneo che deve essere eliminato con ogni mezzo, invece la follia è un qualcosa di intrinseco all’uomo che necessita di essere vissuta per poter esser trasformata. Nella sua lunga battaglia contro i manicomi, Basaglia rilevava come con questa visione di fondo della malattia essi finissero con il negare qualsiasi forma di umanità nel malato, trasformandosi di fatto in luoghi di custodia anziché di cura. E va da sé che non si può curare una malattia dell’uomo senza umanità. Non a caso, osservava sempre Basaglia, tale modo di concepire la malattia, così privo di risultati clinici, finiva con generare “una sorta di culto del pessimismo nella malattia mentale” nel quale la malattia stessa veniva considerata un qualcosa di originario e immodificabile. Tutto ciò contribuiva a generare un clima di paura nei confronti del malato che finiva con l’essere ritenuto un pericolo sociale anziché un essere umano.

Fortunatamente da quegli anni più di qualcosa è cambiato, come possiamo notare dal fatto che c’è meno pregiudizio e stigma sociale intorno al paziente psichiatrico, tuttavia residui della cultura manicomiale rimangono ed agiscono sottotraccia. Tali residui facilitano il fatto che si arrivi a quelle situazioni lavorative paradossali, come quelle descritte poc’anzi, che evidenziano come rimanga una certa diffidenza di fondo verso le capacità lavorative del paziente psichiatrico. Se tale cultura manicomiale, piuttosto sospettosa nei confronti del malato, non fosse più minimamente presente nelle strutture psichiatriche e riabilitative, potremmo immaginare che determinate situazioni lavorative non verrebbero accettate perché determinati lavori non esplicano gli effetti benefici che a livello psichico il lavoro potenzialmente potrebbe avere. In altre parole, solo un lavoro pensato in senso profondamente riabilitativo può rivelarsi autenticamente trasformativo per il paziente di comunità.

Certamente questa è la strada più difficile, ma la comunità e il paziente psichiatrico spesso non hanno alternativa allo scegliere, parafrasando Robert Frost, “ la strada meno battuta”.

[1] Nel film un intenso Sean Penn veste i panni del dottor Minor

[2] Il dottor Minor deciderà di devolvere tutta la sua pensione alla vedova Merrett, povera donna del popolo, alla quale insegnerà anche a leggere e a scrivere.

[3] Interpretato egregiamente da Mel Gibson nel film

[4] Naturalmente anche la situazione economica del Paese incide tanto sulle possibilità occupazionali del paziente psichiatrico, ma in questo articolo l’interesse è concentrato esclusivamente su questioni attinenti la cultura terapeutica.

[5] Le citazioni di Basaglia sono tratte dalla rivista clinica “Isfar 2004”

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