La Psicoterapia Con l’Anziano

La Psicoterapia Con l’AnzianoE’ utile la psicoterapia per la persona anziana?” è una domanda più che legittima che spesso viene rivolta da familiari giovani dell’anziano, e/o dall’anziano stesso, prima dell’inizio di un percorso terapeutico che coinvolge una persona con un’età avanzata. Il dubbio che tale domanda contiene in sé è relativo al fatto che in genere si ritiene che per l’anziano nulla possa cambiare in meglio sia perché le scelte della vita sono già state compiute, sia perché la maggior parte della vita è già trascorsa, sia perché si da per scontato che in ogni caso la mente e il corpo andranno a deteriorarsi.

Tale osservazione, anche se se ne comprende la logica che la guida, trascura diversi fattori. In primo luogo l’uomo dalla culla fino alla fine dei suoi giorni è un animale relazionale, e ciò significa che ha bisogno di raccontarsi e di percepire profondamente che qualcun altro possa condividere autenticamente il proprio sentire. E ciò a buon vedere vale ancora di più per la persona anziana che non per persone di altre fasce di età.  Le persone anziane, ovvero le persone che hanno più di 65 anni e che costituiscono il 22% della popolazione [1] italiana, sono infatti le più sole e soggette a solitudine. Sole perché possono aver perso il/la partner o le amicizie significative di una vita, sole perché fuori dal mercato del lavoro, sole perché spesso in forte difficoltà con una tecnologia lontana dalla loro forma mentis e che di conseguenza contribuisce al farle sentire tagliate fuori dal mondo, sole perché talvolta distanti geograficamente dall’affetto filiale, sole perché non vogliono angosciare gli altri, in specie i familiari più giovani, facendo emergere malanni e timori specifici dell’età. Non a caso la depressione negli anziani non è rara. Quindi il poter narrare questa fase, il poter beneficiare di un ascolto empatico attento e accogliente, è già di per sé curativo di una solitudine che rischia di catturare l’animo della persona anziana.

In secondo luogo, ma non per questo secondariamente, immaginare il cambiamento come solo legato ad un qualcosa che accade all’esterno, come implicitamente sotto intende la domanda sull’utilità della psicoterapia per l’anziano, costituisce in qualche modo una prospettiva limitante e riduttiva. Significa, in altre parole, vedere e misurare la stagione finale della vita con gli stessi occhi e lo stesso metro usato per le stagioni precedenti. Osservandola da questa angolazione la vecchiaia diventa un’inevitabile diminuzione di vita rispetto ai periodi precedenti perché il corpo e talvolta alcuni processi cognitivi non conservano più la freschezza di una volta, ma così facendo non le si rende giustizia perché si trascura di vedere la terza e quarta età per le sue peculiarità psicologiche specifiche.

Scrive Jung in “Gli Stadi della Vita”: “L’uomo non raggiungerebbe di certo i settanta gli ottanta, se questa durata della vita non corrispondesse al senso della sua specie. Così il pomeriggio della deve parimenti avere il suo proprio significato e il suo scopo, e non può essere una misera appendice del mattino.” (C. G. Jung, 1930/1931, pag. 428). Ci si può allora chiedere quale è la specificità di questa “pomeriggio” della vita. E’ forse il riuscire ad avere un buon rapporto con il senso del limite? Pare proprio di sì. Irvin Yalom, nostro contemporaneo e clinico molto sensibile e attento, ha osservato come nel paziente anziano la paura della morte, o forse sarebbe meglio dire l’angoscia della morte, sia non solo innata e onnipresente, ma come “svolga anche un ruolo di gran lunga più importante nel nostro universo psicologico interiore di quanto si creda comunemente.” (I. Yalom, 2002, pag. 278). Ecco, questa angoscia di morte è un punto specifico e saliente della psicoterapia con l’anziano e riuscire a trattarla e ad affrontarla ha un valore terapeutico ed esistenziale difficilmente descrivibile a parole. E con ogni probabilità ha ancora più valore nel nostro periodo storico perché come società abbiamo perso le parole per parlare della morte. Essa costituisce il rimosso del nostro tempo. Nel linguaggio abituale, e il linguaggio naturalmente riflette l’esperienza psicologica di un fenomeno, possiamo riscontrare nel momento in cui si parla di morte lo si fa tendenzialmente mutuando un lessico o medico o giuridico o assicurativo. O si parla della morte di una persona in relazione alla malattia X oY, oppure se ne parla per questioni ereditarie e di patrimonio e lasciti. Discorrere della morte in sé come fenomeno unitario che può avere un suo senso sul quale interrogarsi e fermarsi non fa quasi più parte del nostro orizzonte psicologico. A tal proposito può essere interessante soffermarsi a riflettere un attimo sul fenomeno sempre più frequente del morire in ospedale, evento che testimonia come il morire sia un qualcosa a cui deve dedicarsi in via quasi esclusiva la medicina [2]. Questo fenomeno sociale può essere interpretato come la spia di una diffusa tendenza generale a trascurare il tema morte- fine vita, un pochino come se la questione non riguardasse più tutti noi e la nostra società, che di fatto, così agendo, è come se avesse spogliato tale scottante tematica della sua più ampia portata esistenziale. Non a caso la sociologa canadese Céline Lafontaine ha parlato dell’uomo moderno definendolo “post-mortale”.

E rispetto al cercare di ovviare tale condizione di post mortalità la psicoterapia può offrire un suo positivo contributo. Yalom, focalizzandosi su tale delicata questione, ha suggerito ai terapeuti di incoraggiare il paziente anziano a parlare, a pensare, a rappresentare, a fantasticare intorno alla morte perché non di rado da questo lavoro di esplorazione emerge la spinta ad affrontare ciò che nella vita è rimasto in sospeso. A vivere, in sintesi, ciò che non è stato vissuto. In altre parole, con ogni probabilità recuperare la propria condizione di mortale è basilare, perché in ultima istanza è proprio il sapere che c’è una fine, che c’è un limite, a conferire la giusta importanza a ciò che è stato prima e a ciò che c’è adesso. E’ proprio l’idea del limite a spingere il desiderio di voler lasciare qualcosa di buono di sé agli altri a realizzarsi concretamente in azioni e gesti capaci di lasciare il segno. Accettando il limite finale l’anziano riesce paradossalmente ad onorare al meglio gli impegni psicologici che egli ha ancora verso la propria vita e quella altrui. Enzo Bianchi, monaco laico fondatore della comunità monastica di Bose, parlando del suo essere quasi ottantenne ha scritto: “C’è un domani per il mondo che non finisce con me, e cominciare a percepirlo dà pienezza ai miei giorni.” E nel momento in cui l’anziano riscoprire fino in fondo e in maniera sentita tutto ciò, senza amarezza bensì con saggezza, non solo conferisce quella pienezza sconosciuta e straordinaria alla stagione finale della vita descritta da Bianchi, ma allo stesso tempo dà una lezione esistenziale fondamentale e indimenticabile a tutti coloro che devono ancora arrivare ad attraversare il pomeriggio della vita.

[1] Dato tratto dall’ultimo censimento generale Istat. In alcune regioni, come la Liguria, il dato arriva fino al 28%.

[2]  Norbert Elias, con una battuta fulminante già decenni orsono ha osservato: “Mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli”».

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