La Speranza in Psicoterapia

La Speranza in Psicoterapia La speranza in psicologia e psicoterapia, per quanto ogni percorso terapeutico sia più o meno tacitamente accompagnato da essa, non è stata, come testimonia la scarna letteratura in materia, molto esaminata ed indagata. Una spiegazione storica può aiutarci a trovare un possibile perché di questa poca attenzione su un tema invece così vitale: in genere la speranza è stata considerata di pertinenza religiosa.

Per quasi tutte le religioni la speranza risiede in un Dio ed è collocata in un al di là, è quindi un qualcosa di trascendente e non di immanente. Limitandoci al Cristianesimo, possiamo notare come nel dogma cristiano  la speranza rientri tra le tre virtù teologali – preceduta dalla fede e seguita dalla carità – ed è pensata come una concessione che Dio fa al credente, e non come un qualcosa che il fedele può avere di per sé.  In un certo senso, dal punto di vista cristiano, si può solo sperare che Dio ci conceda la capacità di sperare in Egli stesso perché a tutti gli effetti e Lui stesso la salvezza da questo mondo terreno che non è poi così un bel vedere.

E il qui e ora?, ci potremmo chiedere. Alcuni autori, cogliendo la contraddizione per cui la speranza è sempre presente in terapia ma al contempo poco considerata, hanno cercato di colmare questa lacuna. Karl Menninger ha soffermato la sua attenzione su come la speranza agisca al pari di un potente fattore motivazionale: quando si ha una meta – in altre parole – la speranza fa sì che una persona sia disposta a sopportare più facilmente sacrifici, frustrazioni, fatiche, perché quella determinata meta dà per sé la speranza di un benessere maggiore. Eric Erikson ha collegato invece la speranza al tema della fiducia. Per esempio, un genitore ha la forte e motivata speranza che il proprio figliolo saprà fare un qualcosa, e ciò trasmette una basilare fiducia al bambino che contribuisce a conferirgli un fondamentale senso di sicurezza in sé stesso. Come già si deduce da questi accenni su Menninger e Erikson, la speranza è intimamente legata al futuro. Se da una parte per l’adulto può essere facile avere fiducia e speranza in un bambino, va anche aggiunto come sia meno facile nutrirla verso sé stesso e gli altri adulti. Perché la speranza verso un bambino è qualcosa di ben concreto e identificabile, così di volta in volta c’è la solida speranza che possa imparare ad andare in bici, a star bene insieme agli altri, a studiare, ect…; mentre nell’adulto, che quasi sempre nel corso degli anni ne ha passate e viste tante, la speranza assume la forma di un generico stare meglio. E’ più un desiderio che non un qualcosa di concreto e delineato. Per questo la speranza rischia di tramutarsi in una fiducia labile, in parole di circostanza, in un ottimismo di superficie, in una passiva attesa di un futuro migliore. Mentre la speranza – insegna Fromm che ha scritto un densissimo saggio sulla speranza – deve essere attiva, necessita cioè di essere coltivata.

Cosa può significare coltivare la speranza? Non è facile rispondere a tale domanda perché la speranza non può essere spiegata razionalmente. Coltivare la speranza può significare concedere credito sia al proprio sentire, sia avere il coraggio di seguire un’intuizione di cui, naturalmente, non sappiamo benissimo né da dove sia venuta, né come sia arrivata. In sostanza, la speranza è legata ad un certo atteggiamento verso la psiche sostanziato dal non ritenere che solo l’atto del pensare cosciente possa contribuire a costruire un futuro più appagante del presente.

Una possibilità concreta, ma ben collegata al sentire e all’intuire, per portare avanti questo atteggiamento verso la psiche necessario per coltivare la speranza, la troviamo nel lavorare psicologicamente con i sogni. Sia consentito un breve excursus. Il più delle volte, quando una persona giunge a consultazione, è perché si sente bloccata, ferma, vuota, e non di rado con un senso di inutilità e fallimento addosso. Le più svariate circostanze e vicende esistenziali possono averla condotta a ciò, e naturalmente ha pensato e ripensato a tutta la sua situazione senza, tuttavia, riuscire a dirimere ciò che la affligge. In sostanza, tutto, compreso il senso di vitalità, pare immobile. Se dinanzi a questo impasse si rivolge l’attenzione ai sogni, perché indubbiamente i sogni – come hanno ampiamente mostrato Jung e Von Franz – sono frutto di una parte della psiche che cerca di esprimere con delle immagini una prospettiva globale sulla situazione del sognatore, si noterà che essi offrono degli spunti sorprendenti. Talvolta, nonostante la persona sia bloccata e paralizzata dal suo umore e dalle sue ansie, insistono per esempio affinché ci si dedichi ad un’attività che, a prima vista, potrebbe apparire come un qualcosa che non ha nessuna relazione con la vita del sognatore. Un’attività sportiva, o creativa, o culturale. Questo non risolve direttamente questioni lavorative e/o sentimentali che magari preoccupano la persona, eppure, se i sogni continuano ad insistere su un determinato aspetto, ciò vuol dire che alcune attività potrebbe rivelarsi di grande aiuto per quella specifica persona. Talvolta, dedicandosi a ciò, è come se la persona ritrovasse coraggio, la voglia di tuffarsi in qualcosa di nuovo, la volontà propositiva di mettersi in gioco. E’ come se, qualche volta anche in maniera un pochino misteriosa, la persona riuscisse, anche grazie al suo nuovo interesse, a capire come relazionarsi alle sue difficoltà più generali. Perché l’esperienza che sta compiendo è come se si rivelasse una preziosa e particolare fonte di apprendimento che le sarà utile anche in altri ambiti.

Un fenomeno del genere, sovente, per non dare l’impressione che si tratti di qualcosa di magico, lo si osserva bene in alcuni film. Per citare un esempio, in “The Full Monthy” di Peter Cattaneo. Un gruppo di impiegati e operari, anche discretamente avanti con gli anni, e con ognuno alle spalle una storia diversa, si trovano accomunati dal rimanere disoccupati. Non avendo qualifiche particolari ed essendo per l’appunto non più giovanissimi, sono tutti in profonda crisi. Potremmo dire che sono senza speranza, quasi congelati. Le loro vite si stanno inaridendo emotivamente, tutto ciò che li circonda comincia a perdere di senso e significato, al punto che non riescono più neanche a parlare con chi gli è più vicino. Il momento di svolta arriva quando il personaggio più carismatico, Gaz (Robert Carlyle), ormai vicino a perdere definitivamente la custodia cautelare del figlio, ha l’idea di mettere su un corpo di ballo per streap maschile. E da lì in poi, dopo vari alti e bassi, ripartiranno come rigenerati nelle loro rispettive vite. Ma cosa può essere successo? Hanno avuto il coraggio di mettersi a nudo, anche concretamente nel loro caso, e non hanno solo cercato di resistere alla disoccupazione. Hanno imparato a liberarsi dal timore di fallire, hanno sperimentato su loro stessi l’evenienza di avere ancora qualcosa da dire alla vita e contemporaneamente hanno trovato l’umiltà di riconoscere che nella vita si è sempre principianti rispetto a qualcosa, e per questo hanno ritrovato l’entusiasmo per ripartire. A ben vedere, un’attività lontana anni luce dalle loro difficoltà lì ha trasformati, perché è diventata metafora di un nuovo modo di intendere la vita. E ciò non è così diverso da quanto accade durante l’analisi con alcune attività nuove che la persona intraprende nel corso di essa grazie al lavoro sui sogni.

Psicologicamente potremmo dire che in queste occasioni i sogni, limitandosi e tornando ad essi, è come se lavorassero per riaccendere un tipo particolare di speranza. La nuova attività, difatti, fa rinascere un certo senso di fiducia e nelle proprie possibilità e ciò riattiva la speranza che le cose possano prendere una piega diversa. Ma – come si diceva poc’anzi – si tratta di una speranza un pochino particolare, non legata tanto a qualcosa di concreto, quanto allo sperimentare che la vera speranza siamo noi stessi. E scoprire ciò contiene in sé qualcosa di altamente salutare.

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