L’Importanza Psicologica dell’Aura Artistica

L’Importanza Psicologica dell’Aura ArtisticaNel lontano 1936, con una lungimiranza davvero notevole Walter Benjamin, si pose il problema di come la riproducibilità tecnica di un’opera d’arte potesse influire sulla fruizione dell’opera d’arte stessa. Più precisamente temeva che la riproduzione continua di un’opera potesse toglierle una certa aura, ovvero quel fascino, quel mistero, quell’Alterità che caratterizza l’arte più elevata. Con il progredire tecnico – argomentava Benjamin – l’aura è inevitabilmente a rischio perché se un qualcosa diviene estremamente familiare e a portata di mano per definizione smarrisce quel che di distante e di inaccessibile e di unico che costituisce l’essenza stessa dell’aura.

Più di 80 anni dopo il suo splendido “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, è quasi impossibile dargli torto. Pensiamoci un secondo: una Monna Lisa con i baffi, sulle t-shirts, sui cartelloni pubblicitari di ogni stazione del mondo, diviene una figura che perde il suo misterioso fascino e di conseguenza, forse, di significato; idem per la Venere di Botticelli che, se usata per pubblicizzare l’Italia, per di più in procinto di mangiare una pizza, si trasforma da divina bellezza in una comunissima mortale che non ha nulla di particolare. Questi naturalmente non sono che due tra decine di esempi possibili in tal senso, ma vengono qui citati solo per dare un’idea di quanto i timori di Benjamin fossero fondati.

Ma perché occuparsi di tutto ciò? Non per un fatto di estetica, bensì perché l’arte contiene qualcosa di sublime a livello psicologico: essa ha la capacità di far intravedere e intuire che deve necessariamente esserci una dimensione di alterità nella psiche che percepisce tutto ciò, per la semplice ragione che se tale dimensione non fosse in alcun modo presente nella psiche non potremmo neanche percepirla nell’opera. Detto in maniera più chiara: così come possiamo concretamente vedere quanto l’occhio, inteso come organo, ci permette di vedere, allo stesso modo possiamo percepire un qualcosa solo se questo qualcosa è presente in potenza dentro di noi. Così, di conseguenza, è più che opportuno occuparsi dell’aura di una grande opera d’arte perché essa ci pone dinnanzi all’evidenza che una qualche alterità deve albergare in noi. Alterità in Noi che a sua volta potrebbe avere qualcosa di prezioso da dirci.

Da quanto detto sino ad ora ne deriva che oggigiorno abbiamo, in misura decisamente anche maggiore rispetto ai tempi in cui ne iniziava a parlare Benjamin, la necessità di recuperare aura. E’ davvero possibile, visti i mezzi tecnologici di cui disponiamo, muoversi in tal senso? Certamente non è per nulla semplice, tuttavia una geniale osservazione di Carl Gustav Jung sul rapporto tra Io e coscienza potrebbe esserci di grande aiuto nel direzionarci verso un recupero di aura. Nell’ottica di questo grande studioso svizzero l’Io occupa il centro del campo della coscienza, ma non coincide in toto con la coscienza stessa, né tantomeno con la totalità della psiche. L’Io è quell’elemento che ci permette di riconoscerci, di fornire un senso di continuità alla nostra esistenza, mentre la coscienza – dice Jung – è un insieme di attività che promuovono il divenire coscienti. Potrebbero sembrare distinzioni fumose e inutili, ma non è solo questione di termini, bensì anche di sostanza. Facciamo un esempio: talvolta chiunque di noi è baciato da un’intuizione, o nel lavoro, o nella vita privata e via dicendo, e l’Io subito se ne appropria. L’Io è portato ad affermare: “Ho avuto un’intuizione”, e ciò lo induce a sentirsene il proprietario, ovvero ad essere naturalmente incline a pensare che tutto gli appartenga, perché tutto è un suo merito, e di conseguenza tutto diviene un qualcosa di cui può disporre a suo totale piacimento. Restando sulla nostra ipotetica intuizione, in realtà, si può dire che essa arriva, come se una parte della psiche volesse divenire più cosciente. Potremmo quindi dire che la coscienza con le sue attività che si pongono a cavallo tra coscienza e inconscio, e l’intuizione potrebbe insieme ad altre essere annoverata tra queste, è come se mediasse rispetto ad un’aerea della psiche che sembrerebbe più inconscia, ma al contempo desiderosa di manifestarsi in una maniera più consapevole perché portatrice di possibilità di sviluppo insite nella personalità. Come ben si deduce dal discorso, questo semino d’oro iniziale non proviene dall’Io, né dalla coscienza, ma da un altrove psichico che non conosciamo bene. Saperlo – osserva Jung – è importante perché permette all’Io di essere più umile: non proprietario di qualcosa, bensì al suo servizio come se ne fosse il custode. E forse il punto è proprio questo per l’istanza egoica: riconoscere che egli è parte di una coscienza più ampia, che a sua volta pare poggiare su una base inconscia che in qualche modo misterioso vuole realizzarsi nella vita spaziale e temporale di un individuo, pone tutti i fenomeni psichici e la vita sotto una prospettiva diversa, perché con tale consapevolezza l’Io è posto nella condizione di cogliere come sia una parte del Tutto e non il Tutto. E ciò a livello psicologico costituisce una differenza fondamentale, perché l’Io nel momento in cui ritiene invece di essere il Tutto finisce subito con il rimanere vittima delle sue fantasie titaniche e in breve esaurisce le possibilità di sviluppo. In poche parole, si inflaziona e si inaridisce. Se invece –  e questa è una delle grandi lezioni junghiane – riconosce di essere solo una parte di una psiche ben più ampia e complessa, è come se potesse beneficiare, per usare una metafora, della presenza di acqua fresca che zampilla dalla profondità dell’uomo che finisce con il donare un senso di vitalità a tutta la personalità. Paradossalmente, in sostanza, l’Io è un qualcosa di piccolo, al contrario di quanto è portato a credere, che può crescere solo a condizione che riesca costantemente a riconoscere la propria piccolezza. 

Tutto ciò, ovvero il modo che ha l’Io di porsi rispetto ad un fenomeno, è certamente applicabile anche al modo in cui l’Io si relaziona all’arte e all’aura di un’opera. Se l’Io ritiene di esserne il proprietario finisce inevitabilmente con il banalizzarla e con il farla scadere in qualcosa dal sapore personalistico e di legato ad interessi con orizzonti troppo ristretti. Torniamo ancora alla Venere di Botticelli: usata per promuovere il turismo nel nostro paese, si ritrova ridotta al rango di una modesta cartolina pubblicitaria. Nel momento l’opera viene usata solo per promuovere interessi egoici, in questo caso economici, di colpo perde il suo significato più ampio per l’Uomo, significato che potrebbe essere legato alla necessità di avere un rapporto con la Bellezza nel senso più ampio del termine.

Il Munch più maturo era solito dire che un’opera d’arte appartiene a tutti, non nel senso che ognuno può disporne a suo piacimento per seguire i suoi interessi più o meno elevati, bensì perché essa è potenzialmente capace di toccare e smuovere corde profonde in ognuno. Per alcuni versi l’opera, radicalizzando l’osservazione del pittore norvegese, non è cum grano salis neanche del suo artefice materiale. E se non appartiene del tutto all’Io dell’artista, figuriamoci quanto questo possa valere anche per tutti gli altri. Avere memoria di tutto ciò, di alcune osservazione junghiane e munchiane, può essere un modo per coltivare un certo rispetto per l’aura che l’opera d’arte emana.

In termini più pragmatici, come potrebbe essere coltivato concretamente tutto ciò? Un possibile modo consiste nello stare fermi davanti ad un’opera, senza agire, senza servirsene per qualche scopo. Più che fare, per ricorrere ad un’altra espressione junghiana, bisogna “lasciar accadere”, ovvero è necessario cercare di guardare-vedere-ascoltare con il cuore – l’immagine traboccante di aura che si ha davanti. Un ascolto totale, in cui si lascia entrare e risuonare l’opera dentro di sé affinché essa smuova il nostro mondo interiore, e chissà poi che questo atteggiamento diverso verso l’opera e la sua aura non ci regali qualche lampo di intuizione che ci giunge da chissà dove.

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