Competizione Esasperata e Giovani Adulti

Competizione Esasperata e Giovani Adulti“Ho 27 anni e sono già fuori dal mercato del lavoro, le aziende prendono solo chi ha massimo 25 anni e si è laureato con la lode”, dice un paziente neo ingegnere. La stessa frase, quasi identica nelle parole, non è una sua esclusiva: la si sente pronunciare dai suoi coetanei laureati in giurisprudenza, in economia, o in altre discipline tecniche, con motivazioni analoghe a quelle dell’ingegnere appena citato. Ancora più pessimismo si respira nelle parole del neo psicologo, del neo sociologo, o del laureato in lettere, o in lingue, o in un ramo artistico: “Siamo tantissimi e non cercheranno di certo me…”; “Il mercato è saturo…”; “La nostra figura non è apprezzata dalla società…”; e via dicendo dicono i vari giovani delle varie facoltà umanistiche, quasi come se l’uomo al giorno d’oggi non fosse più importante.

Ragazzi che hanno ottenuto buoni risultati, talvolta più che buoni risultati, ma che si sentono in ritardo e tagliati fuori da una sorta di corsa contro il tempo, che paiono aver sperimentato fin dai loro primissimi anni di vita. Già alle elementari, i ragazzi di questa generazione, hanno familiarizzato con un continuo correre che lascia perplessi: hanno partecipato a olimpiadi delle varie materie, hanno gareggiato in concorsi scolastici legati a premi monetari, sono stati spinti a cercare il “10” in ogni occasione, come se la parola d’ordine fosse il risultato e non l’andare a scuola per imparare ad avere un vero interesse e amore per lo studio, reale ragione per cui si dovrebbe andare a scuola. Questo è quanto hanno vissuto a scuola, ovvero una competizione esasperata fin dalle prime battute. Ma questo è anche quanto hanno vissuto più in generale, perché sarebbe assolutamente riduttivo pensare che tutto il disagio attuale sia dipeso dalla scuola. Anche fuori, nello sport ad esempio, è stato tutto un cercare di vincere: qualunque bambino/a, in qualunque sport, sia stato esso il tennis o il calcio o l’equitazione o la danza, fin dal principio ha iniziato a partecipare a tornei. E se si parte in cento alla fine ad arrivare primo al traguardo è uno solo, perché, si sa, nelle competizioni il secondo è solo il primo dei perdenti. Ma come è riduttivo e banale incolpare la scuola per le difficoltà di questi ragazzi, altresì lo sarebbe incriminare lo sport per spiegare il disagio di questi giovani adulti, perché il forsennato messaggio “bisogna vincere” è arrivato da qualunque parte: dai media, dai social media, e più in generale dalla pervasiva atmosfera che si respira nella società. In altre parole, è passato, e continua ad arrivare, un generale “bisogna vincere perché solo così si è qualcuno” dalla società nel suo complesso e non da singole istituzioni.

Il risultato di tutto ciò? Il paradosso, come notavamo poc’anzi, di una quantità impressionante di persone che hanno buonissime capacità, che sono mature, che sono consapevoli, che sono responsabili, ma che si sentono fallite e non di rado inutili. Il tutto a meno di 30 anni, come se non avessero prospettive. Come se tutto fosse già segnato, probabilmente perché il mantra del dover essere vincenti è stato così proposto e riproposto in tutte le salse, per di più in una maniera così dirompente, che è come se non riuscissero a pensare che non è detto che tutto sia già deciso. E’ in effetti come se questi giovani adulti non fossero abituati a pensare che la vita può riservare sorprese e occasioni inaspettate, perché se la vita è una gara non c’è spazio per altro: le regole sono chiare, e o si vince o si perde. E quando sentono di aver perso si sentono anche vuoti, o meglio svuotati di energie e prospettive.

Come se ne esce? Come aiutare questi giovani adulti a non cadere dentro un’apatica rassegnazione che sembra intorpidire il loro stato d’animo? Aiutandoli a ripercorrere le implicazioni psicologiche delle loro storie di vita: come dicevamo poco sopra, questi ragazzi hanno sempre corso, il che vuol dire che la loro attenzione ed energia psicologica è sempre stata rivolta verso l’esterno, e questo costituisce un aspetto sul quale soffermarsi. Durante i loro percorsi formativi-educativi hanno appreso che dinanzi ad una difficoltà è sia necessario avere una competenza/abilità in più, delle skills come direbbero loro; sia questione di credere maggiormente nell’idea che niente è impossibile e che volendo volere e potere. Insomma, davanti ad un ostacolo hanno imparato che era solo questione di dare di più, di fare uno sforzo in più, di impegnarsi di più, come se tutto potesse avere una soluzione razionale, o come se tutto dipendesse dalla capacità pianificatrice e programmatrice dell’uomo. Naturalmente il punto è che non sempre le cose vanno in questo verso, nel senso che non sempre la risoluzione di un qualcosa è per così dire esterna, ma questi ragazzi, abituati a porsi in questo modo davanti ad una difficoltà, e trovandosi impantanati nella difficoltà stessa che stanno attraversando, iniziano a pensare di essere loro stessi il problema, di non essere capaci, di essere – per usare delle parole bruttissime che si odono con facilità – dei falliti e delle nullità. Ma non è appunto questione di essere degli incapaci e degli inetti, è questione di imparare a volgere l’attenzione anche all’interno.

E’ necessario imparare a fermarsi, ad aspettare. Fermarsi può essere un modo per capire dove si è eventualmente sbagliato, ma fermarsi può essere anche un modo per capire che effetto fa tutto ciò, può essere l’occasione per ascoltarsi, per aspettare che arrivi qualche intuizione.  Da quest’ultima angolazione, stare fermi vuol quindi dire avere la salutare umiltà di ammettere che non sempre la razionalità ha la soluzione. Significa cominciare a prendere in considerazione altre possibilità, che possono arrivare, o forse sarebbe meglio dire arrivarci, per le vie più sorprendenti. Grandi scoperte scientifiche, che hanno contribuito a cambiare le nostre vite per sempre, sono arrivate non per mezzo della razionalità, ma in altro modo: ad esempio Watson e Crick scoprirono, nonostante da anni si stessero dedicando all’argomento, la struttura a doppia elica del DNA solo perché Watson la vide in sogno; qualcosa di analogo accade a Kekulé, il quale comprese la struttura ad anello del benzene perché in sogno gli apparve un serpente in carbonio nell’atto di mordersi la coda, e da lì realizzò la scoperta che lo rese celebre; oppure potremmo ricordare come Isaac Newton intuì la legge della gravità dopo aver visto una mela cadere da un albero e non in seguito a razionali esercizi di laboratorio; oppure ancora potremmo pensare a come Joseph Priestley afferrò il funzionamento dell’ossigeno guardando quanto accadeva ad una candela. Questi non sono che pochi esempi e volendo si potrebbe continuare all’infinito con aneddoti del genere, tuttavia è preferibile non farlo in favore di un limitarsi a sottolineare come razionalmente tutti le avessero pensate tutte, ma senza risultati, mentre in sogno o con delle intuizioni questi grandi della scienza sono riusciti a pensare l’impensabile. E tante volte va in questo modo, non solo per quanto concerne scoperte storiche/scientifiche, bensì anche nelle vite dei singoli individui. Non si tratta di magia, assolutamente, perché osservare ascoltandosi, registrando quello che accade dentro di sé, permette di cogliere la realtà in potenza, ovvero una realtà che ancora non c’è ma che potrebbe esserci di lì a poco. Schopenhauer che era Schopenhauer, sarebbe a dire una mente fuori dal comune, sosteneva che si potessero leggere e studiare bene solo poche pagine al giorno, perché riteneva che in tal modo si offrisse alla psiche nel suo complesso la possibilità di sviluppare appieno quanto letto e appreso, le si desse cioè l’opportunità di cogliere tra le righe, ovvero di rendere più compiuto e visibile e masticato quanto appena accennato. Mentre nel nostro contesto culturale si tende a confondere la velocità con l’intelligenza, come se l’ottenere una buona prestazione nel minor tempo possibile fosse necessariamente sinonimo di intelligenza. Ma non sempre esiste una relazione diretta tra queste due qualità, spesso l’intelligenza richiede un tempo di gestazione. Per questa ragione gli studenti non dovrebbero mai scoraggiarsi se non sono in linea con i tempi dettati dalla legge: la velocità non dimostra che si possiede realmente e a fondo qualcosa. Possedere una materia significa far nascere qualcosa dal materiale che si ha a disposizione, per questo il non correre e il fermarsi sono momenti basilari a livello psicologico. In altre parole, fermarsi psicologicamente equivale ad offrire alla psiche l’opportunità di partorire. Non a caso Carl Gustav Jung considera l’idea femminile. Scrive testualmente: “L’idea è sempre femminile. La psiche è femminile, perché la testa, il cervello, possiede la facoltà di creare, perciò è come l’utero, è femminile.” In sostanza, fermarsi pone le basi affinché tutto ciò possa accadere perché il fermarsi precede appunto la creazione.

Avere un approccio ad una difficoltà più razionale e attivo e orientato verso l’agire immediato può talvolta portare fuori binario. Nella seria Tv cult “La Casa di Carta” ciò si vede benissimo: la mente del gruppo, il Professore, per portare a termine il suo piano volto a rapinare la zecca di stato spagnola fa sempre in modo che gli investigatori lo seguano su tracce e piste esterne che sembrano decisamente legate ad una ferrea logica razionale, ma che in realtà non fanno altro che allontanarli dalla cattura. Si fa inseguire, li fa correre come dei forsennati con una serie geniale di trappole fuorvianti, che di fatto perdono efficacia solo nel momento in cui gli investigatori si fermano per poter capire cosa sta realmente accadendo. Ciò succede, se si osserva con attenzione, di frequente anche nelle nostre vite: per risolvere una questione che ci affligge corriamo e seguiamo di fretta strade che poi si rivelano errate. Naturalmente l’essere attivi, reattivi, attenti all’esterno, in tantissime occasioni è utile, ciò viene precisato perché non si vuol trasmettere l’impressione che conti solo la realtà interna e non quella esterna, perché in tal caso si farebbe un errore di tipo opposto a quanto descritto sino ad ora. Tuttavia, tutta questa attenzione al cercare di guardare anche all’interno di sé e non solo all’esterno, è giustificata dal fatto che la nostra società è così prevalentemente direzionata verso l’esterno, da rendere assolutamente necessario il rimarcare con energia l’importanza del saper guardare anche dentro di sé al fine di recuperare un maggiore bilanciamento psicologico tra il guardare fuori di sé e il guardare dentro di sé. Operazione quest’ultima fondamentale per i nostri giovani adulti, ma alla quale, visto il ritmo frenetico nel quale sono da sempre immersi, paiono poco allenati. E rispetto all’incrementare tale allenamento la psicoterapia può offrire una buona mano.

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