Complessi e Sogni

Complessi e SogniIl termine “complesso” è entrato da tempo nel linguaggio comune: “ho un complesso di inferiorità”, “quella persona è complessata”, “ha un complesso di onnipotenza”, sono espressioni usate con scioltezza e disinvoltura nei vari contesti mediatici e sociali sia per raccontare la propria condizione, sia, talvolta, per descrivere quella altrui. Sembrerebbe quindi un argomento già abusato perché già chiaro e conosciuto, tuttavia può valere la pena tornare su questo delicato aspetto psicologico perché, e in ambito clinico ciò pare evidente, si fatica a fuggire dalla sensazione che la parola “complesso” venga usata in maniera apotropaica.

Ovvero in una maniera magica e propiziatoria, come se il solo atto di dare un nome ad un’entità psichica, ad un complesso appunto, potesse di per sé risolvere tutto d’un tratto le implicazioni e le difficoltà che il fare i conti con un tale nucleo psichico può comportare.

In ambito di psicologia del profondo il primo ad occuparsi di complessi è stato Carl Gustav Jung, da egli definiti a “tonalità affettiva”. Vediamone una sua breve descrizione. Un complesso – scrive Jung – “è una rappresentazione di una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo. Questa immagine possiede una forte compattezza interna, ha una sua completezza e dispone inoltre di un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che è sottoposta soltanto in misura limitata alle disposizioni della coscienza” (Jung, 1934, pag. 113). Una rappresentazione/immagine, quindi, fortemente emotiva ed autonoma o almeno con un certo grado di autonomia.

Le immagini psichiche, se osserviamo con attenzione, sono già presenti o iniziano a formarsi nei primi mesi di vita. Da questo punto di vista la situazione dove ciò è più lampante la troviamo nel bambino: pare che egli arrivi al mondo avendo già dentro di sé un’immagine dei genitori che inizia ad attribuirgli fin dall’inizio, e che verrà modificata e re-introiettata con l’esperienza della relazione reale con il genitore, ben prima che l’infante cominci a parlare.

Le immagini guida servono, potremmo dire, a leggere le varie esperienze e ad orientarci nella realtà, altrimenti ogni volta dovremmo ripartire da zero. Queste immagini primordiali, originarie, possono infatti essere ritenute la matrice di tante altre immagini. Il nostro sistema psicologico si organizza come se le immagini e le esperienze successive venissero automaticamente inglobate dall’immagine originaria, in parte talvolta modificandola. Da quest’angolazione, tornando al nostro bambino, possiamo notare come l’immagine che ha del rapporto con la propria mamma influenzi, senza che egli se ne accorga, il modo che ha di relazionarsi a figure che possono essere assimilabili alla classe “madre”, quali la nonna, la zia, la maestra, e via dicendo. Ciò accade perché la relazione con queste figure rievoca emozioni e vissuti di sostegno e calore materno già esperiti nel rapporto originario con la madre. Tutto questo processo psichico ricco di emozioni è al contempo automatico, per la semplice ragione che si tratta di un qualcosa che si verifica senza che il bambino ne abbia una particolare consapevolezza. Da tutto ciò deduciamo quanto un complesso, nel nostro esempio il complesso materno, si formi, si coaguli, intorno ad immagini psichiche cariche di affetti e che autonomamente guidano l’agire.

Qualcosa di analogo accade nella formazione di tanti altri nuclei complessuali: un’esperienza significativa da luogo ad un’immagine emotivamente pregna di affetti che, nella usuale modalità autonoma, inizia ad organizzare altre esperienze. Pensiamo ad un complesso di inferiorità. Immaginiamo un bambino di 6 anni che fa il suo ingresso nella scuola elementare, e che per qualche motivo viene deriso dai compagni di classe. Si sentirà offeso, umiliato, escluso, ma soprattutto se l’esperienza si protrarrà nel tempo proverà una dolorosa vergogna e un sentirsi diverso. Questa percezione di sé così negativa, mista a tutte queste emozioni fonte di disagio, e al limite dell’ingestibile per un bambino, darà con ogni probabilità origine ad un complesso di inferiorità. Perché ogni qual volta che ci sarà una situazione di gruppo con l’annessa possibilità di essere giudicati, tale matrice originaria potrà essere rivissuta nella nuova situazione gruppale. E qui sta la pericolosità e la difficoltà di un complesso: non tanto il fatto che esso si sia formato, perché in un certo senso i complessi costituiscono il modo abituale che ha la psiche di organizzare le esperienze, quanto il fatto che per la parte più cosciente della personalità è difficile “intervenire” nel caso in cui l’esperienza complessuale si riveli negativa. In altre parole, un complesso fa viaggiare su un binario e non è facile cambiarlo anche nel momento in cui si capisce che quel binario è dannoso per la persona stessa. Per un bambino che si sente inferiore e diverso non è affatto semplice non sentirsi in tal modo. Un complesso quando è così pericolosamente autonomo, tende a cronicizzarsi. Non a caso esperienze vissute da bambino, influenzano l’adulto di domani. In un certo senso, il bambino è il padre dell’uomo. Talvolta la situazione è così cronica che ci si dimentica persino quali sono state le esperienze originarie che hanno generato il nucleo complessuale. Il complesso in tali circostanze è a tal punto autonomo, così lì da sempre, che pare semplicemente la realtà abituale di una determinata persona.

In ogni caso, un complesso di inferiorità ben radicato crea così tante difficoltà in varie aree della vita che una qualche risposta la psiche cerca di fornirla. Spesso si tratta di una risposta difensiva. Per esempio, spesso ad un pervasivo senso di inferiorità si risponde con l’evitamento e il ritiro, non di rado accompagnato da un dolce rifugiarsi nella propria fantasia, o compensando il proprio disagio esibendo un sussiegoso senso di superiorità in qualche altra area della personalità. Queste risposte a lungo termine hanno qualche svantaggio, perché presentano qualche prezzo psichico da pagare. Stancano, sfibrano, tolgono energia. Perché evitare e/o ritirarsi è stancante, frustrante, così come è altresì una stancante costrizione dover essere quasi coattivamente qualcuno, pur di eludere quell’angosciante senso di inferiorità. Anche il lottare, quotidianamente, contro tutte queste sensazioni è di per sé stancante. E la stanchezza, specie se protratta, specie se non trova risposte realmente soddisfacenti, annebbia la vista psichica, toglie cioè umanità. Rende duri, con sé e con gli altri.

Allora è necessario trovare risposte diverse al complesso. Quali? Dove si può capire qualcosa di più di quello che accade con un complesso? Nei sogni. Un complesso è qualcosa di invisibile, un complesso di inferiorità non lo vediamo, ne solo osserviamo e deduciamo per lo più i suoi effetti. Solo nei sogni, per alcuni versi, esso assume una forma più visibile. Illustrando la sua teoria dei complessi al selezionato uditorio della Tavistock Clinic di Londra, Jung afferma: “Con la sua particolare tensione o carica energetica un complesso tende a formare una piccola personalità propria. Ha una sorta di corpo, in una certa misura una propria fisiologia” (Jung, 1934, pag. 84). Quanto appena detto, fa notare Jung, nella schizofrenia lo rileviamo nella sua massima espressione. In quella patologia le voci autonome che la persona ode sono le voci dei complessi che assumono un picco massimo di perturbante e inquietante autonomia. Per chiarire che con in complessi qualcosa si può fare, poco più avanti nel corso della stessa conferenza lo stesso Jung aggiunge: “La personificazione dei complessi non è di per sé una condizione patologica. Nei sogni, per esempio, i nostri complessi appaiono in forma personificata” (Jung, 1934, pag. 85). Ciò accade perché la psiche può essere considerata un organismo che tende ad evolversi attraverso una continua autoregolazione, e in virtù di ciò si può ritenere che la funzione della psiche inconscia, che in primo luogo si manifesta nei sogni, sia quella di compensare l’atteggiamento più cosciente della personalità. E i complessi decisamente invadono la coscienza, talvolta la tiranneggiano. Per questo, sottolinea Jung, è importante non tanto vedere quali complessi sono presenti nei sogni, quanto cercare di capire cosa “dicono i sogni sui complessi” (ibidem., pag. 94).

Il cosa dicono i sogni sui complessi di Jung può essere reso, detto in altre parole, con un cercare di capire come i complessi vengono rappresentati e “trattati” nei sogni. Marie-Louise Von Franz ne “Il Mondo dei Sogni” (1988) afferma che i complessi nei sogni vengono spesso rappresentati come un qualcosa che succhia, sottrae, energia. Con sorprendente frequenza compaiono immagini oniriche di vampiri che si nutrono di sangue, oppure ferite sanguinanti, oppure ancora figure divoranti. Tutte immagini che rimandano ad una sottrazione di vitalità. Se tuttavia si continua per un certo periodo di tempo ad osservare e a monitorare i sogni, si può vedere, osserva con esperienza Von Franz, come tali questioni complessuali vengano presentate anche sotto altre luci e prospettive. Torniamo al complesso di inferiorità di cui parlavamo prima. Una persona con tale difficoltà potrebbe sognare a più riprese che altri che nei suoi confronti hanno nella realtà un atteggiamento vampiresco, pensiamo per inciso ad un adolescente bullizzato che si trova a dover fronteggiare dei bulli che paiono trarre nutrimento dal fatto di schiacciarlo e ridicolizzarlo, in una forma grottesca. Nei sogni non sono poi così forti ed in aggiunta a ciò, se esaminiamo una sequenza onirica più ampia, potrebbero comparire figure eroiche alleate del sognatore, qualcuno che evoca l’Ulisse omerico per esempio, capaci di fornire “indicazioni” al sognatore sul come affrontare al meglio i suoi bulli.

I sogni suggeriscono un atteggiamento da coltivare. Scrive la stessa Von Franz: “I sogni non sono in grado di preservarci dalle vicissitudini esistenziali, dalle malattie e dagli eventi tristi. Ci offrono, invece, una linea di condotta sul come rapportarsi a questi eventi, sul come dare senso alla nostra esistenza, sul come realizzare il nostro destino, sul come seguire la nostra stella: in definitiva, sul come realizzare dentro di noi il massimo potenziale di vita” (Von Franz, 1988, pag. 19).

E i complessi in primo luogo necessitano di essere affrontati con il giusto atteggiamento che la psiche stessa propone per andare oltre essi.

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