L’Abuso Sessuale nella Donna: il Rischio di Pagare Due Volte

L’abuso sessuale su un bambino/a consiste, ricorrendo ad una esaustiva definizione di Montecchi (1994), nel “coinvolgimento di soggetti immaturi e dipendenti in attività sessuali, soggetti a cui manca la consapevolezza delle proprie azioni nonché la possibilità di scegliere”. Questa definizione permette di cogliere come l’abuso sessuale non coincida necessariamente con la penetrazione. L’aspetto centrale dell’abuso sessuale è rappresentato dall’impossibilità, da parte della vittima, di scegliere e/ o comprendere quello che sta accadendo o che viene proposto. Mostrare al bambino/a materiale sessuale, toccarlo, costringerlo a spogliarsi, a vedere e a toccare l’abusante, sono tutte forme di abuso sessuale, a prescindere dalla presenza o meno di penetrazione.
La frequenza degli abusi sessuali è, purtroppo, molto elevata, e colpisce entrambi i sessi. Tuttavia, in questo breve articolo cercheremo di focalizzarci sulle conseguenze psicologiche a lungo termine che generalmente presentano le donne abusate in età precoce. Tralasceremo volutamente da parte sia l’analisi delle condizioni sociali e familiari che facilitano il verificarsi di certi episodi, sia tutto ciò che concerne l’abuso nei bambini maschi che diventeranno poi uomini.
Stone (1990), un importante psicoanalista contemporaneo, ha rilevato come le pazienti che intraprendono un percorso terapeutico del profondo riferiscono di aver subito almeno un episodio di abuso sessuale, nel corso della loro vita, in una misura percentuale che oscilla tra il 30 e il 50% dei casi. La forchetta nella percentuale non deve sorprendere più di tanto perché è noto che in determinate condizioni psicopatologiche, quindi in taluni campioni esaminati da Stone, la frequenza degli abusi sessuali è statisticamente più elevata. In particolare è stata osservata un’alta frequenza di abusi sessuali nelle pazienti bulimiche e in quelle borderline. Nella stragrande maggioranza dei casi l’abuso viene perpetrato da una figura familiare: un padre, un fratello, un nonno, uno zio. Sporadicamente la violenza è da donna a donna.
Comunemente la donna abusata reagisce all’abuso provando un forte senso di vergogna, un senso di colpa per l’accaduto. E’ come se la donna abusata invertisse il peso delle responsabilità: “L’ho provocato”, sembra dire, in diverse declinazioni, la donna abusata. E’ una vittima, ma paradossalmente, porta su di sé il peso dell’accaduto.
Perché questa reazione? In un certo senso, sentirsi responsabili dell’evento è un modo per controllarlo, un tentativo volto ad evitare nuovi abusi. Un modo per non sentirsi in balia di chiunque. Ma tutto ciò è anche’ il tentativo disperato per evitare di pensare l’impensabile, un modo per difendersi da un dolore troppo pervasivo: un dolore legato al fatto che a tradire il legame, la fiducia primaria nell’Altro, e di conseguenza nel mondo, è stata una figura familiare. Ciò rende intollerabile l’abuso: è un dolore enorme pensare, ammettere ai propri occhi, che chi doveva donare amore, protezione, sicurezza, è invece colui che ha annientato la propria esistenza psicologica. Se si pensa che l’abuso si verifica molto spesso in età precoce, o nella prima adolescenza, si capisce più facilmente perché è così: la bambina, accusando se stessa e rendendosi cieca sull’altro, riesce a mantenere un legame di attaccamento con una figura dalla quale spesso dipende. Sintetizzando si può dire che l’esigenza di attaccamento, come del resto tutte le ricerche da Bowlby in poi dimostrano, è talmente radicata nell’essere umano che non vi si può rinunciare per nessuna ragione al mondo. Così la persona preferisce crocifiggere se stessa, con la vergogna, la colpa, la disistima, piuttosto che toccare con mano la profonda ferita sanguinante che l’abuso ha lasciato. In altre parole, per sopravvivere psichicamente la persona abusata deve far scendere una sorta di silenzio psichico sull’abuso.
In alcune circostanze, questa reazione fatta di colpa e vergogna è talmente radicale che conduce la persona abusata ad identificarsi con l’aggressore. Cioè, ne vengono assunti i modi di pensare e agire. Qualche volta ne vengono assunti anche i comportamenti. Per una donna identificarsi con l’aggressore non vuol dire diventare a sua volta abusatrice di qualcuno (anche se talvolta questa evenienza si verifica), bensì continuare a ripetere intrapsichicamente l’abuso. Per aiutare il lettore ad afferrare meglio il senso di quest’ultima affermazione, mi si lasci ricorrere al mito di Ceni.
Ovidio ne “Le metamorfosi” (libro XII), ci racconta la storia di Ceni. Ceni era una vergine bellissima che abitava in Tessaglia. Tutti avrebbero voluto sposarla, ma lei non ne aveva alcuna fretta. Un giorno, mentre camminava da sola lungo il mare, il dio Poseidone uscì dalle acque e le usò violenza. Dopo la violenza, forse colto dal rimorso, il dio Poseidone le disse: “Puoi esprimere un voto senza che ti sia rifiutato. Scegli quello che desideri.” Ascoltate queste parole, Ceni non ebbe dubbi: “Da questa offesa nasce un solo desiderio: che non avvenga mai più una cosa simile. Fa’ che io non sia mai più donna, e avrai compiuto il mio più grande desiderio.” Come aveva promesso, Poseidone mantenne la parola: la tramutò nel guerriero Ceneo, invincibile ed interessato sola alla guerra.
La soluzione scelta da Ceni ha un solo obiettivo: spazzare via la sua femminilità. A livello clinico, la donna abusata agisce psichicamente in maniera non dissimile da Ceni. In proposito, Luigi Zoja scrive nel suo ultimo libro dedicato alla violenza maschile: “La sindrome di Ceni ci offre una diagnosi mitica tragicamente adatta a ogni tempo. La vittima paga due volte. Subisce prima la violenza carnale, che per motivi di fisiologia maschile ha una durata limitata. Ma, dopo di essa, può riversare per sempre il suo rancore, anziché sul maschio che l’aggredita, su quella bellezza e su quella grazia femminile che sente in qualche modo responsabili dell’aggressione” (Zoja 2010, pag. 20). Detto in altro modo, per la donna identificarsi con l’aggressore vuol dire introiettare quella prospettiva di valori, “maschili” psicologicamente parlando, che hanno reso possibile l’abuso.
L’identificazione con l’aggressore, intesa nel modo come esposto poc’anzi, costituisce una doppia violenza perché una donna abusata rinunciando alla sua femminilità finisce inconsciamente e inconsapevolmente con il tradire se stessa.
Giunto a questo punto il nostro discorso, si porta dietro automaticamente una domanda: “Come si può aiutare una donna ad evitare questa doppia violenza?”. In breve si può dire che a livello terapeutico è necessario riscoprire il dolore dell’abuso, trovare le parole, le immagini, per esprimere l’indicibile. E’ importante divenire consapevoli di come l’abuso agisca di fatto come un tarlo: un qualcosa che è lì sepolto nella mente, ma che silenziosamente, sotto traccia, produce i suoi velenosissimi effetti. D. Kalsched nel suo splendido libro “Il mondo interiore del trauma” (1996) sostiene che i traumi paralizzano l’attività mentale, cancellano la capacità di narrarsi. Disumanizzano perché interrompono il senso di coerenza insito nella propria storia personale. Ecco, nella donna abusata accade proprio questo: viene spezzata la propria storia e il proprio potenziale. A livello terapeutico si deve necessariamente provare a ripartire da laddove la propria storia si è interrotta. Un modo per non rimanere spezzati dal peso violento dell’abuso e per riprendere il cammino interrotto della propria unica e irripetibile individualità di donna.

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