Trauma e Comprensione

Trauma e ComprensioneIl termine trauma deriva dal greco antico traumatismos, che indicava l’azione del ferire, e dal sostantivo trayma che era solito significare ferita, danno o, in senso più lato, disastro. La radice è connessa a ti-tràò e rimanda al verbo “forare”. In sostanza il significato etimologico del termine si riferisce ad una ferita causata tramite perforazione, ovvero ad un danno che riporta effetti visibili. Il termine fu ripreso dalla chirurgia patologica per designare una lesione corporea ad opera di un agente fisico esterno, e anche se non esiste una classificazione psicologica ufficiale [1] dei traumi, anche in virtù del fatto che non è mai facile capire in che modo un evento traumatico incontra la soggettività del singolo individuo [2], tale termine conserva, se traslato in ambito psicologico, la stessa connotazione. Generalmente infatti, la letteratura psicologica, concorda nel ritenere un trauma uno shock esterno improvviso e violento capace di esercitare un’influenza negativa, transitoria o più a lungo termine, sulla personalità globale della persona investita dall’evento traumatico.

Per quanto non esista un elenco “universale” riconosciuto dei traumi, è possibile descrivere le esperienze potenzialmente traumatiche attraverso criteri legati al tempo e al ruolo giocato dall’uomo rispetto a tali evenienze. Da un punto di vista temporale, alcuni eventi patogeni, quali per esempio disastri naturali come terremoti, tsunami, alluvioni, oppure eventi rari a cui si ha la sfortuna di assistere in prima o in terza persona, quali incidenti stradali, morti improvvise, violenza sessuale da parte di un estraneo, omicidi, furti, risse, ect., costituiscono per lo più un unicum. Mentre altri eventi, quali per esempio l’incuria fisica e psicologica di un bambino da parte dei genitori, una violenza sessuale perpetrata da una figura familiare, il dover essere sottoposti ad una continua tensione dentro le mura domestiche, la perdita del posto di lavoro, l’avere a che fare con una malattia cronica invalidante, l’essere costretti a vivere una situazione economica perennemente precaria, per arrivare infine a guerre e carestie, e via dicendo, comportano un contatto continuo con lo stimolo stressante capace di traumatizzare la persona. Scorrendo tale elenco, certamente incompleto, diviene subito evidente come in talune circostanze le azioni umane non abbiano nessuna rilevanza nel determinare la situazione potenzialmente traumatica, come nel caso dei disastri naturali, mentre in altre occasioni sono pesantemente coinvolte. E ciò cambia la “geografia” del trauma e la reazione ad esso.  Lenore Terr, pediatra e psichiatra esperta in materia, ha con acume osservato come gli eventi unici e circoscritti [3] tendano a far insorgere reazioni tipiche, basate sull’evitamento di stimoli simili, su una maggiore attivazione generale dell’organismo con conseguenti difficoltà di irritazione, concentrazione, sul rivivere costantemente l’accaduto attraverso flash-back e incubi notturni, che si riscontrano frequentemente in quello che il DSM [4] IV-TR definisce Disturbo Post Traumatico da Stress; mentre gli eventi nei quali la mano dell’uomo pesa maggiormente, e che si ripresentano nel tempo, inducono per lo più reazioni di dissociazione psichica, di derealizzazione e di depersonalizzazione, menzionate nei Disturbi Dissociativi del già segnalato DSM.

Entrambe queste classi di reazioni ad eventi fortemente stressanti costituisco dei tentativi di difesa per arginare l’impatto devastante del trauma. Perché il trauma, per usare un’espressione particolarmente perspicace di Donald Kalsched, autore di saggi illuminanti in materia[5], costituisce “un’esperienza non formulata, né simboleggiata” (2008, pag. 32). Un’esperienza che non riesce ad essere pensata, rappresentata,  ed infine trasformata. La persona, secondo l’Autore, percepisce l’evento traumatico a tal punto pregno di “un’angoscia di disintegrazione” capace di devastare il nocciolo più intimo della personalità che non può fare a meno di porre automaticamente in azione strategie difensive per salvaguardarsi. Da quest’angolazione, la ripetizione costante dell’evento che la persona vive nel disturbo post traumatico è un tentativo per “liberarsi” quasi per catarsi dagli affetti divampanti vissuti; così come la dissociazione è un modo per allontanarsi da un fuoco interiore che rischia di incendiare l’individuo. Modi per sopravvivere che confinano la persona in un limbo psichico, evitandole quantomeno un vuoto infernale, in cui tuttavia fa fatica a riconoscere se stessa, la propria vita e il proprio futuro. Si pensi per un attimo ad un bambino a cui il terremoto distrugge la casa: il luogo che era fonte di sicurezza e protezione, diventa sorgente di spavento, ciò che era familiare assume dei contorni inquietanti. Il tutto avvolto da un alone di incomprensibilità. Perché un trauma, non solo il terremoto che cade sulla casa di un bambino che abbiamo citato a mò di esempio, costituisce una rottura del significato, spezza il senso di invulnerabilità di una persona, ed inoltre ne ridefinisce l’orizzonte temporale. Secondo Crocq (1997), un trauma con la sua ingombrante presenza dilata enormemente il presente, cancella la speranza dal futuro, e confina il passato dentro il recinto della nostalgia. Detto con altre parole, il trauma, frantumando il senso esistenziale di una persona, rischia di privare un uomo della sua umanità. Primo Levi, reduce dalle traumatiche barbarie dei campi di concentramento nazisti, ha cercato per il resto della sua vita le parole per capire come lo scopo dei Lager non fosse uccidere, quanto violare l’individualità di una persona trasformandola in un non-uomo. Scrive testualmente in “Se questo è un Uomo”: “E’ Null Achtzehn. Non si chiama altrimenti che così, Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null Achtzen non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, da l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi, e il vento le scuote”  (Pag. 37, 1958). Con le dovute cautele e cercando di non perdere il senso delle proporzioni, si può dire che ogni evento traumatico può gettare in una condizione di non-vita simile a quella raccontata da Primo Levi. Perché un trauma isola e rende gli altri estranei. Si pensi al senso di sgomento che può sviluppare una donna vittima di violenza verso gli altri uomini. Potrebbe tranquillamente essere portata a dissociarsi dalla sua femminilità pur di riuscire a tollerare il dolore.

Considerata questa capacità dei traumi di allontanare dagli altri, intuiamo agevolmente quanto la relazione umana, il contatto empatico, l’ascolto, possano essere un primo passo verso una sutura della ferita che il trauma tende a scavare. Perché il contatto e l’ascolto riattivano la scintilla umana laddove essa sta scomparendo. L’ha descritto benissimo ViKtor Frankl, anch’egli sopravvissuto al Lager: “Quando ricordo come un capo operaio (dunque un non internato) mi diede una volta di soppiatto un pezzetto di pane – e sapevo che l’aveva risparmiato dalla sua razione del mattino – ricordo bene che questo pezzo di pane non era solo qualcosa di materiale; quell’uomo – e mi commossi letteralmente fino alle lacrime – mi dava qualcosa d’umano, una parola umana, uno sguardo umano accompagnavano il dono” (Pag. 143-144, 1994). In uno sguardo, in un gesto, in un ascolto attento capace di essere sensibile e aperto all’imprevisto, si nasconde il sapore inconfondibile della comprensione. Comprensione capace di spezzare l’isolamento psicologico che circonda la persona traumatizzata e che permette di iniziare a capire diversamente il dolore patito a causa del trauma. Comprensione, in sostanza, che realizza un primo passo verso il ricollegare diversamente i fili interrotti della propria storia.

[1] Van der Kolk (2004), psichiatra contemporaneo studioso dei traumi e delle loro possibili implicazioni psicologiche, ha notato come in genere la psichiatria abbia mostrato delle resistenze rispetto al tema “trauma psichico” perché il trauma pone davanti al male e a ciò che è “disumano”. In qualche modo il trauma con la sua radicale capacità di perforare la biologia e la psicologia dell’uomo pone con violenza dinanzi alla finitezza dell’essere umano. E ciò, secondo Van der Kolk, ha costituito per una disciplina quale la psichiatria, che ha sempre cercato di arginare la vulnerabilità umana, uno smacco di per sé.

[2] A tal proposito è per esempio interessante notare come i teorici dell’attaccamento abbiano fatto notare come delle buone relazioni di attaccamento preesistenti all’evento traumatico riducano l’impatto dell’evento negativo.

[3] Secondo l’Autrice tali eventi “producono” traumi che ella definisce di 1° tipo , mentre l’esposizione prolungata ad eventi fortemente stressanti, di cui si parla poco più avanti nel testo, generano traumi di 2° tipo.

[4] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali redatto e revisionato periodicamente dall’APA (American Psychiatric Association)

[5] “Il mondo interiore del trauma” (2001), per esempio,  pare indubbiamente una pietra miliare sull’argomento.

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