L’Evoluzione Storica del Disturbo Borderline di Personalità

Il termine borderline è una locuzione metaforica che riesce ad evocare immagini spaziali ma anche e soprattutto immagini quali la frontiera, il limite. I limiti, come è noto, sono sempre abbastanza variabili. La parola borderline contiene di per sé una certa dose di ambiguità. Il termine apparve per la prima volta in uno scritto scientifico di Huges del 1884 “Borderline psychiatratrics records. Prodromal symptoms of neurologist”. L’autore sosteneva che c’erano molte persone che trascorrevano gran parte della loro vita in una situazione molto prossima alla follia. Il problema del limite era già nell’aria.Per tutto il XIX secolo c’erano state segnalazioni del genere: Pinel ebbe modo di parlare di mania senza delirio o follia ragionante; in seguito Esquirol descrisse una condizione da lui definita monomania ragionante; negli anni seguenti la zona intermedia si arrichì grazie ad autori come Morel che considerò alcune persone affette da insanità morale o come Falret che parlò di follia ragionante. Queste persone erano dipinte come alienate, ma “la loro follia non si traduceva in un problema di idee di intendimento ma in un disordine degli atti ed in un’aberrazione dei sentimenti” (Gasser, 1994, pag. 30).Nei confronti di questi potenziali pazienti era particolarmente sentito il problema di come trattarli dal punto di vista legale: c’era una contrapposizione netta fra coloro che li vedevano del tutto responsabili per i loro atti e fra coloro che sostenevano che i loro impulsi folli costituivano la prova più evidente del fatto che fossero malati, e per tal motivo bisognosi di essere curati. Tra i fautori di questa seconda posizione c’era Maudsley che ebbe modo di sollecitare in più occasioni un o sforzo terapeutico verso queste persone. Con notevole lungimiranza scrisse in “Responsabilità in Mental Disease”: “E’ dunque molto importante riconoscere che esiste, tra sanità e insanità una sorta di terreno neutro, di zona intermedia: è ancora più importante non limitarsi ad una constatazione puramente teorica ma studiare accuratamente i casi equivoci dai quali questa zona è popolata. La conseguenza di un tale studio, secondo il nostro giudizio, pur essendo quella di confondere distinzioni ben stabilite e di rendere incerto ciò che prima sembrava certo non può mancar d’essere, in definitiva, la più vantaggiosa” (Gasser, 1994, pagg. 30-31). L’invito di Maudsley fu tendenzialmente ignorato a causa della cultura dominante dell’epoca: il positivismo. Le concezioni positivistiche non poterono non influenzare la psichiatria, che allora più di oggi, era legata alla medicina: i disturbi mentali erano considerati il risultato di fattori prevalentemente se non esclusivamente organici (Jervis 1978). Difficilmente poteva non essere così dato che, nel corso della seconda metà dell’ottocento, l’approccio “localizzazionista” permise di fare scoperte di assoluto rilievo quali l’area di Broca del 1861 e l’area di Wernicke del 1874. La psichiatria fu portata con naturalezza dal corso degli eventi ad abbracciare l’ottica positivistica. Tutto ciò non può essere certamente descritto come un qualcosa di completamente negativo, tuttavia questo atteggiamento di fondo non ha facilitato una maggiore esplorazione dell’area borderline.
L’eredità della nosologia forte e la nascita della psicoanalisi.
Emill Kraeplin può essere considerato il personaggio che forse più di ogni altro ha contribuito a cambiare il metodo della psichiatria. Uno storico come Ellenberg ha scritto sul suo conto: “Uno dei suoi maggiori successi fu la costruzione di una nosologia razionale delle malattie mentali, con il concetto di demenza precoce e di disturbi maniaco-depressivi” (Ellenberg H., 1970, pag. 334). Oltre alla costituzione di una nosologia razionale, a Kreaplin, va anche il merito di aver studiato migliaia di casi clinici di pazienti psichiatrici ospedalizzati attraverso una puntuale ricostruzione della storia di ognuno di questi, così come può essergli riconosciuto il fatto che ha osservato il decorso della loro malattia (Zilboorg 1941, in Kazdin 1992). Il problema fu che, anche se ciò può sembrare paradossale, un metodo di lavoro così rigoroso ha portato lo psichiatra tedesco, e insieme a lui le successive generazioni di psichiatri, a trascurare il problema delle situazioni limite che inevitabilmente fuggivano da una inquadratura nosografia così precisa. In proposito è emblematica l’affermazione di Gasser: “La caratteristica più importante di questo periodo è un relativo silenzio riguardo la questione dei limiti” (Gasser, 1994, pag. 31). La necessita, quindi, di rendere, mi si permetta l’espressione, più scientifica la psichiatria ha condotto la disciplina stessa ad oscurare il problema delle condizioni limite: il discorso iniziato dai vari Maudsley, Huges e da altri prima di loro sembrò cadere nel vuoto. Del resto lo stesso silenzio di Kreaplin su alcune condizioni è stato seguito anche da Eugen Bleuler. Quest’ultimo ampliò il discorso di Kreaplin sulla demenza precoce, mostrando come non tutti i casi fossero inevitabilmente destinati a un continuo deterioramento. Questo importante e significativo approfondimento del modo di inquadrare la malattia mentale inaugurò la tradizione psichiatrica di descrivere forme attenuate di schizofrenia. Basti pensare che Bleuler parlò di schizofrenia latente e come viene giustamente osservato nel “Trattato italiano di psichiatria” “molti di questi pazienti erano quelli che poi dovevano essere chiamati borderline” (Cassano, 1999, pag. 2365).Di fatto però non dedico molto spazio a questo suo concetto, nel senso che non andò mai a considerare ciò come un qualcosa di effettivamente diverso dalla schizofrenia, come del resto l’espressione da lui stessa coniata sottolinea. Questa posizione, come avremo modo di riprendere in seguito, avrà un peso non indifferente nel lavoro degli altri psichiatri che hanno avuto la possibilità di osservare disturbi al limite. Anche la psicoanalisi, ai suoi esordi, non ha tenuto in grande considerazione il problema degli stati limite. Freud distinguendo nel 1915 fra “nevrosi di transfert” e “nevrosi narcisistiche”, e dicendosi convinto che solo le prime potevano beneficiare del metodo psicoanalitico, delimitò in un certo senso il perimetro di azione della psicoanalisi (Cassano 1999). Anche se Freud si interessò ugualmente di problemi come la paranoia o la depressione grave e se con il successivo modello strutturale aprì la strada allo studio psicoanalitico di patologie più gravi (Grenberg e Mitchell 1983), rimane da chiedersi quale è stato l’effetto della distinzione freudiana tra le varie forme di nevrosi. E’ sicuramente molto difficile stabilirlo, anche perché la psicoanalisi quasi immediatamente ha subito delle scissioni molto significative, quali quelle di Jung e Adler. Ma d’altra parte se è vero, o almeno molto vicino alla realtà, quanto ha scritto Jervis e cioè: “Tuttora, in molti scritti di psicoanalisti, il richiamo a un testo o un breve brano freudiano viene usato come una sorta di documento autorizzante per giustificare ogni nuova proposta clinica o teoretica, secondo un orientamento in cui è evidente il desiderio di non uscire dall’ambito istituzionale di un’ortodossia in nome del Maestro fondatore” (Jervis, 1993, pag. 103), si può intuire come la distinzione fra le due categorie di nevrosi identificate da Freud possa aver condizionato il lavoro svolto negli anni seguenti da molti altri psicoanalisti. Mitchell ha osservato come “Il modello pulsionale, centrato sul conflitto intrapsichico e attento all’esperienza di motivazioni inconciliabili nell’ambito di un solido senso di realtà, appare insufficiente a rendere conto di quelle ferite interpersonali che determinano i fallimenti evolutivi e l’esperienza di un senso frammentario e incompleto della propria identità personale” (cit. in Dazzi e De Coro pag. 24). Il modello freudiano sembra, quindi, insufficiente per spiegare il comportamento di quei pazienti di cui parla MItchell che presentano notevoli analogie con i borderline, i quali soffrono in maniera evidente di un disturbo di identità. Il fatto è che, come ben testimonia il lavoro di Greenberg e Mitchell del 1983 sulla “Relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica”, gli psicoanalisti hanno avuto molte difficoltà a conciliare il modello freudiano con le successive osservazioni cliniche e non che facevano emergere con molta evidenza l’importanza degli aspetti più relazionali nello strutturarsi della personalità. Date queste condizioni diventa più logico intuire come coloro che si trovavano a contatto con quei pazienti della zona intermedia non potevano che essere in difficoltà nel loro lavoro. Molti psicoanalisti erano consapevoli della necessità di introdurre dei cambiamenti. Non a caso nel corso degli anni si è sviluppato un dibattito, con un crescente numero di partecipanti, che aveva al centro del suo interesse le modifiche da utilizzare a livello tecnico nel trattamento dei pazienti più gravi (Luborsky 1984).Le varie innovazioni che venivano maggiormente tenute in considerazione con il passare degli anni e che hanno avuto un ruolo non marginale erano però anch’esse delle misure, che se prese da sole, non sufficienti a tal punto da permettere un miglioramento molto ampio nella comprensione del comportamento, inteso in senso relazionale-affettivo, dei pazienti borderline. La psicologia dinamica è riuscita a realizzare un significativo progresso nei confronti dei pazienti borderline nel momento in cui ci sono stati autori, come vedremo nel prossimo paragrafo, che hanno tentato di integrare prospettive teoriche differenti.
Tre tendenze in un terreno incerto
Cassano nel suo “Trattato italiano di psichiatria” ha osservato come per lunghi decenni la psichiatria e la psicoanalisi erano riuscite a creare una situazione anomala piuttosto paradossale: la maggioranza degli psichiatri preferiva occuparsi di pazienti psicotici e dall’altra buona parte degli psicoanalisti lavoravano solo con pazienti nevrotici. Il fatto che fosse rimasta nel mezzo quella che è stata definita la terra di nessuno non significa che nessuno si cimentasse con questi pazienti. Anzi le numerose espressioni coniate per descrivere in ambito clinico, sia negli studi professionali che nelle strutture ospedaliere, qualche situazione anomala da parte di diverse figure professionali testimoniano il contrario. Tanto per citare qualche esempio prima che A Stern nel 1938 rispolverasse la parola borderline c’erano stati: Clark che parlò di “nevrosi borderline” (1919); Reich di “carattere impulsivo” (1925); Jones di uno “stato di schizofrenia” (1930); Glover di “schizofrenia incipiente” (1932); Kasanin di “schizofrenia abortiva”. Dopo Stern ci furono invece: Fairbairn che parlava di “personalità schizoide” (1940); Zilboorg di “schizofrenia ambulatoriale” (1941); Deutsch di “personalità come se” (1942); Klein di “meccanismi schizoidi” (1944); Rapaport, Gill e Schafer di “personalità preschizofrenica” (1946); Hoch e Polatin di “schizofrenia pseudonevrotica” (1949); Bychowsky di “carattere psicotico” (1953).In realtà è possibile rintracciare per tutto il periodo elencato tre tendenze di fondo: quella della psichiatria, quella della psicologia psicoanalitica dell’Io e quella dei teorici delle relazioni oggettuali. Nel lavoro degli psichiatri emerge chiaramente il fatto che tutti considerassero questi pazienti affetti da una forma più lieve di schizofrenia. Soffermandoci a rileggere le loro definizioni ciò lo intuiamo senza difficoltà; basti pensare alla già citata schizofrenia latente di Bleuler, alla schizofrenia abortiva di Bumke, al lavoro di Kasanin, a quello di Zilboorg, per arrivare a Hoch e Polatin e ai lavori più recenti di kety e collaboratori. Si potrebbe obiettare che forse è solo una coincidenza l’evenienza che tutti questi studiosi abbiano utilizzato il termine schizofrenia, ma in effetti non è così e le parole di Kernberg lasciano riflettere: “E’ il caso di rilevare come sia Zilboorg sia Hoch, nonostante i loro fondamentali contributi all’analisi descrittiva delle condizioni caso al limite, ritenessero schizofrenici tutti questi pazienti. A quanto pare non si resero conto di avere a che fare con una forma diversa di psicopatologia” (Kernberg, 1975, pag. 30). La considerazione di Kernberg non credo che possa essere liquidata come faziosa o ingiusta. Hoch e Polatin nel loro articolo “Forme pseudonevrotiche di schizofrenia” del 1949 forniscono una descrizione di questi pazienti davvero notevole: fanno notare come molti di loro si trovino a zigzagare “ripetutamente sulla linea di realtà”, come la loro vita sessuale sia “un insieme di tutti i livelli di libido”, come sia presente un’ansia diffusa. Però è vero che giungono alla conclusione segnalata da Kernberg: “In questi pazienti il comportamento affettivo è spesso simile a quello visto nei casi di schizofrenia conclamata, sebbene sia molto meno evidente e quindi spesso passi inosservato” (Hoch e Polatin, 1949, pagg. 3-4). Questo atteggiamento di fondo della psichiatria, di considerare le situazioni limite come forme minori di schizofrenia, finirà, come vedremo più avanti, con i lavori di Grinker e Spitzer.Gli psicologi dell’Io si sono soffermati ad osservare come ci fossero alcuni pazienti che mostravano un funzionamento compromesso, ma non a tal punto da poterli considerare psicotici. Stern descrisse un insieme di pazienti con un complesso di sintomi tra i quali spiccavano una difficoltà nell’esame di realtà, specialmente nelle relazioni interpersonali, e una scarsa tolleranza alle frustrazioni. L’autore facendo notare la debolezza dell’Io pose le basi per i successivi lavori, in particolar modo per quelli di Knight. Quest’ultimo evidenziò con enfasi ancora maggiore l’insufficiente funzionamento dell’Io: “Gli stati borderline sono situazioni cliniche in cui le funzioni dell’Io, come i processi di pensiero secondari, la capacità di integrazione, l’esame di realtà, il mantenimento delle relazioni oggettuali, l’adattamento all’ambiente, e le difese contro impulsi inconsci primitivi, sono profondamente indebolite” (cit. a pag. 18 in Cotugno 1995). Tali funzioni non erano in ogni caso indebolite come negli stati psicotici. Anche altri autorevoli psicoanalisti statunitensi concentrarono i loro sforzi sulla qualità del funzionamento globale dell’Io: si veda per esempio l’interessante lavoro di Rapaport, Gill e Schafer (1948) che hanno sottoposto un campione piuttosto ampio al test di Rorschach. Durante l’esame clinico gli autori hanno avuto l’opportunità di osservare come molte persone, che generalmente non presentavano disturbi nell’esame di realtà, avessero un pensiero primario che si esplicitava soprattutto attraverso fantasie primitive e per mezzo di verbalizzazioni peculiari (Kernberg 1975). Gli psicologi dell’Io hanno quindi preferito soffermarsi a studiare l’integrità dell’esame di realtà, mentre è possibile notare come gli psicoanalisti delle relazioni oggettuali abbiano posto enfasi sul ruolo di alcuni meccanismi di difesa che sono tipici dei soggetti borderline. Jones, per esempio, fu uno dei primi ad evidenziare come l’Io si scindesse per auto-conservarsi nei momenti in cui era presente un pericolo (Dazzi, De Coro 2001). Anche Glover interpretò le difese come una forma di prevenzione (Rayner 1991). Ma è soprattutto con le osservazioni di Fairbairn e della Klein che si capisce chiaramente come i meccanismi di difesa più primitivi siano un qualcosa di inevitabile, durante lo sviluppo, e che il loro potenziale disadattivo derivi dal fatto che divengano un qualcosa di cronico. Con gli studi della Kein sulla posizione schizo-paranoide e su quella depressiva e con i lavori di Fairbairn che illustrano l’inevitabilità delle scissioni dell’Io hanno iniziato ad esserci gli strumenti per una maggiore comprensione di un paziente borderline anche perché questi autori, oltre ad interessarsi del funzionamento mentale primitivo, hanno rimarcato l’importanza di una prospettiva evolutiva. Mi si permetta di citare un passo di Fairbairn in proposito: “E’assai frequente che un’analisi profonda riveli scissioni dell’Io anche in individui che si presentano per un’analisi a causa di difficoltà cui non è stata attribuita una definita etichetta psicopatologica. Il significato della scissione dell’Io può essere valutato appieno solamente quando lo si consideri da un punto di vista evolutivo” (Fairbairn, 1940, pagg. 52-53).Queste tre tendenze appena descritte, in maniera diversa, hanno dato comunque un buon contributo per la comprensione delle condizioni limite. Tuttavia l’idea di una condizione borderline come un’entità autonoma che non fosse semplicemente una versione attenuata di qualcos’altro non era matura per quei tempi. Usando le parole di Knight il termine borderline veniva usato come una sorta di “cestino della spazzatura” riservato ad i casi più equivoci. Sarà necessario ancora qualche anno per arrivare ad una concettualizzazione del disturbo borderline meno vaga rispetto alle precedenti.
Il concetto si restringe
Le linee di tendenza adesso delineate hanno avuto ognuna i loro ideali continuatori. Meritano di essere segnalati tra gli psichiatri ancora Hoch, questa volta in collaborazione con Cattel (Hoch e Cattel 1959, in Kernberg 1975), e il lavoro di Kety e collaboratori (1968 in Cotugno 1995). Tra gli psicologi dell’Io ci fu Erickson (1956) che osservò casi di diffusione di identità, mentre nell’ambito della scuola inglese autori quali Rosenfeld (1963) ela Segal (1964) ebbero la capacità di chiarire meglio il meccanismo della scissione e di mostrarne il suo stretto rapporto con i meccanismi affini (Kernberg 1975).I contributi che, tuttavia, permisero di chiarire meglio la patologia borderline furono due: il lavoro di Grinker (1968) e quello di Kernberg (1967). Grinker è stato, parafrasando Gunderson (1984), un ineludibile “punto di riferimento”. Suo grande merito è stato quello di aver interrotto l’ottica degli psichiatri che da Bleuler in poi avevano sempre considerato la condizione borderline come una forma lieve di schizofrenia. Ciò fu possibile perché Grinker risentì dell’influenza di alcuni psicoanalisti dell’Io, come Schmideberg (1959) e Modell (1963), che mettevano in discussione la tesi elaborata da Hoch e Polatin nel 1949. Grinker curò con particolare attenzione empirico-descrittiva il suo lavoro, nato proprio “dall’insoddisfazione per il clima vago e incerto in cui la diagnosi di disturbo borderline continuava a rimanere” (cit. pag. 22, in Cotugno 1995). Dopo aver selezionato 51 giovani di “diagnosi difficile e incerta” (Maggini, Pintus 1991) articolò la sua ricerca in tre successive fasi: dopo un’attenta osservazione identificò i criteri e sottocriteri diagnostici della “sindrome borderline”; fece un’indaginesulle famiglie dei pazienti; eseguì uno studio di follw-up. Dopo aver elaborato uno strumento ad hoc (“Scheda per le valutazioni individuali delle funzioni dell’Io”) e dopo averne effettuato l’analisi statistica distinse quattro sottogruppi di borderline: versante psicotico, borderline nucleare, personalità come se, versante nevrotico. Queste quattro sottoclassi le considerò appartenenti allo stesso continuum nosografico il quale era costituito da quattro elementi psicopatologici in comune:1) sentimenti di rabbia, come affetto principale o esclusivo;2) relazioni interpersonali disturbate, ma intense sul piano emotivo;3) assenza di un’identità coerente e integrata;4) depressione pervasiva, caratterizzata da un senso di solitudine e di vuoto, piuttosto che da sentimenti di colpa e autoaccusa. Il lavoro di Kernberg, considerato da Goldstein, “il più significativo apporto dell’approccio psicodinamico alla definizione diagnostica dei disturbi borderline” (cit. pag. 14 in Maggini, Pintus, 1994), è stato possibile grazie ai lavori dei suoi immediati predecessori. Greenberg e Mitchell hanno fatto notare come le formulazioni teoriche di Kernberg siano successive a due teoriche di “transizione” qualila Malher ela Jacobson. Una transizione verso una maggiore integrazione tra il modello pulsionale e i teorici delle relazioni oggettuali. Queste due autrici hanno effettivamente attribuito una grande importanza alla figura materna nella formazione della personalità del figlio, ma ritenevano che il suo essere determinante fosse legato al modo con cui soddisfaceva o non soddisfaceva le richieste pulsionali del figlio. In un certo senso i tempi erano ormai maturi per accogliere il lavoro di Kernberg, che usando le parole di Grennberg e Mitchell è stato “il primo teorico americano a dichiararsi un freudiano, ma anche a proclamare esplicitamente di attingere dagli scritti degli autori del modello relazionale” (Greenberg, Mitchell, 1983, pag.323). Per la prima volta, con Kernebreg, la parola borderline viene associata alla nozione di organizzazione di personalità, che è dotata di una struttura stabile. L’autore statunitense distinse tre organizzazioni di personalità che corrispondono a tre diversi livelli evolutivi e tre differenziate strategie di adattamento alla realtà: l’organizzazione nevrotica, quella borderline, quella psicotica. La distinzione fra le tre gli è stata possibile tenendo in considerazione tre fattori: la qualità dell’esame di realtà, il grado di integrazione dell’identità, i meccanismi di difesa. Questi parametri formulati da Kernberg permettono di evidenziare come egli abbia operato una sintesi fra prospettive diverse. Nel descrivere l’Io di un soggetto con organizzazione borderline di personalità, l’autore, utilizzò una visione bilaterale: da un lato sottolineò il fatto che in occasioni poco strutturate questi pazienti mostravano una modalità di pensiero simil-psicotico, riprendendo così gli spunti sia di Knight che di Rapaport e colleghi, e dall’altro lato, rivolgendo particolare attenzione ai meccanismi difensivi, riuscì a fornire una spiegazione molto convincente delle relazioni interpersonali intense e instabili che li caratterizzavano, riprendendo e ampliando in tal modo il contributo degli autori inglesi. E’ corretto osservare come con i lavori di Grinker e di Kernberg la zona limite viene ad essere considerata una situazione stabile, la parola borderline non viene più semplicemente usata solo nel momento di difficoltà. Questa stabilità si manifesta, in questi due autori, in maniera differente: si inizia a discutere di organizzazione di personalità e di disturbo di personalità. La nozione di organizzazione borderline di personalità, usata da Kernberg, è qualcosa di più ampio rispetto al disturbo borderline di personalità. Lo stesso autore nel corso degli anni specificherà che nella sua nozione di organizzazione borderline di personalità rientrano i disturbi del cluster B del Dsm IV, e quindi comprende anche il più specifico disturbo borderline di personalità. Nulla toglie che con il lavoro di questi due autori si sia arrivati a capire che il termine borderline poteva essere legato a quelle persone che manifestavano un funzionamento “stabilmente instabile”.
L’approdo nel DSM
Con i lavori di Grinker e Kernberg si erano create le condizioni per l’inserimento di una nuova categoria diagnostica nel Dsm. Oltre ad aver delimitato lo spazio della zona intermedia, sia pure in maniera diversa, influenzarono il clima del periodo. Con la diffusione dei loro studi fu avvertita l’esigenza di una revisione delle pubblicazioni in letteratura sulla materia. L’onere di questo pesante compito gravò sulle spalle di Gunderson (!975) e di Spitzer (1975). Gunderson e Singer decisero di prendere in considerazione tutta la produzione descrittiva e psicodinamica e di soffermarsi sugli aspetti psicopatologici comuni, che permettessero di definire un valido quadro diagnostico di riferimento per il disturbo borderline (Maggini, Pintus 1991). Trovarono una serie di caratteristiche cliniche molto importanti: turbe dell’affettività (depressione o rabbia, ansia e anedonia), scarso adattamento sociale, presenza di esperienze psicotiche dopo eventi stressanti, superficialità e dipendenza nelle relazioni interpersonali. Dopo questo approfondito studio costruì
la Diagnostic Interview for Borderline. Il suo merito maggiore fu quello di essersi impegnato in una più meticolosa discriminazione del disturbo borderline, rispetto a quanto fatto da Grinker che era interessato soprattutto a mostrare come nei pazienti borderline non fossero presenti né i processi associativi né il pensiero artistico o regressivo degli schizofrenici. Cotugno commentando il lavoro di Gunderson ha scritto: “Il lavoro di Gunderson ha il merito di essersi posto come obiettivo principale la definizione di criteri diagnostici, capaci di distinguere la patologia borderline da quella schizofrenica, affettiva, narcisistica e schizotipica, consentendo di assegnare ad essa la dignità di entità nosografia autonoma, appartenente al più ampio gruppo dei disturbi di personalità” (Cotugno, 1995, pag. 25).
Anche Spitzer (1979) si prodigò in un lavoro molto impegnativo. Passando in rassegna tutte le aree in cui il termine borderline era stato usato nella letteratura, ebbe modo di cogliere come il suo tizzo fosse riservato sia ai casi descritti da Kernberg e da Gunderson che a quelli di Kety e colleghi, mentre a suo parere questi due gruppi di pazienti non potevano essere considerati rientranti nella stessa categoria diagnostica. I pazienti di Kernberg e Gunderson erano più o meno simili fra loro: avevano una scarsa tendenza al controllo degli impulsi, relazioni interpersonali instabili dovute ad un senso di sé scarsamente integrato, umore dominato da sentimenti cronici di rabbia, vuoto e noia. Mentre i pazienti segnalati da Kety e coll. Si caratterizzavano per un comportamento fortemente disturbato sia dal punto di vista dell’affettività che dal punto di vista del pensiero e dell’adattamento socio-relazionale. Spitzer preferì parlare di “Personalità instabile” per descrivere pazienti simili a quelli di Kernberge Gunderson e di “Personalità schizotipica” per inquadrare quelli di Kety e collaboratori. Nel Dsm III la “Personalità instabile” verrà chiamata disturbo borderline di personalità. Non è un caso che il disturbo borderline di personalità abbia fatto la sua comparsa nel Dsm III dopo questo decennio di fruttuose indagini, che hanno comunque potuto vedere la luce grazie ai lavori precedenti. L’inserimento del disturbo borderline nel Dsm ha implicato il riconoscere a questa patologia lo status di entità psicopatologica autonoma, acquisendo così una sua identità non legata ad una opposizione ad altre condizioni (Cotugno 1995).Nel Dsm III alla voce disturbo borderline di personalità seguì un elenco di otto sintomi, più precisamente erano: la difficoltà nel controllo dell’impulsività e della rabbia, affettività disforica, instabilità affettiva, presenza di comportamenti autolesivi, sentimenti cronici di vuoto e noia, modalità di relazioni instabili e intense, intolleranza all’essere soli. Nella successiva edizione del Dsm, del 1987, non rientrarono grandi modifiche. L’unico criterio che fu sostituito fu “l’intolleranza all’essere soli” con l’introduzione di “tentativi esagitati di evitare un reale o immaginario abbandono”. L’idea di disturbo borderline era rimasta quasi la stessa, ma cominciarono ad emergere dei forti dubbi sulla impostazione neo-kreapliniana del sistema diagnostico più diffuso. In quel periodo c’era infatti una crescente insoddisfazione verso il Dsm come ben testimoniano le roventi polemiche del congresso APA del 1982. I detrattori del Dsm facevano notare come mancasse ogni riferimento ai concetti di conflitto e mentalism, di fatto veniva criticata la mancanza di cultura psicodinamica nel manuale diagnostico (Magone P. 1983). Questi rilievi lasciarono il segno, non a caso furono ripresi quei tentativi, già timidamente avviati negli anni 70, di inserire una lista di meccanismi di difesa nel Dsm. L’operazione nel Dsm III-R almeno in parte fallì, in quanto fu stilato un elenco di diciotto meccanismi di difesa che venne considerato poco affidabile. Vista la loro scarsa affidabilità i meccanismi di difesa era possibile trovarli soltanto nel “glossario dei termini tecnici” (Lingiardi 1994). Questi sforzi non sono stati tuttavia inutili, visto che nel Dsm IV è stata invece introdotta una scala comprendente 27 meccanismi di difesa e una scala per la valutazione del comportamento relazionale. Tutte queste aggiunte, da me appena accennate, erano il frutto della volontà di arrivare ad un maggiore equilibrio tra prospettiva psicodinamica e descrittiva. Questo clima di fondo non ha potuto non toccare anche l’oggetto principale di questo articolo, cioè il disturbo borderline di personalità. Ritornando infatti su quest’ultimo si può senza esitazione affermare che i cambiamenti presenti nel Dsm IV sono stati più significativi di quelli avvenuti nel recente passato. In quest’ultima versione sono stati finalmente presi in considerazione i brevi episodi psicotici, che a livello clinico sono stati spesso segnalati, ed inoltre in questa edizione è stata introdotta la persistente distorsione dell’immagine di sé. In poche parole il Dsm IV offre una visione del disturbo borderline di personalità più esaustiva rispetto a quanto mai avvenuto in precedenza, viene definito come: “Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore e una marcata impulsività, comparse nella prima età adulta e presenti in vari contesti, come indicato da uno (o più) dei seguenti elementi” (cit. a pag. 714 del Dsm IV):1) Sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono; 2) Un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidelaizzazione e svalutazione;3) Alterazione dell’identità: un’immagine di sé e percezione di sé marcatament instabili;4) Impulsività che sono almeno potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate; 5) Ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante;6) Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore; 7) Sentimenti cronici di vuoto;8) Rabbia immotivata e intensa o difficoltà a controllare la rabbia;9) Ideazione paranoie, o gravi sintomi dissociativi, legati allo stress.

×
Menù