Implicazioni Cliniche del Complesso Materno nella Donna

In “Considerazioni generali sulla teoria dei complessi” Carl Gustav Jung cerca sia di illustrare scrupolosamente cosa intendesse per complesso psichico a tonalità affettiva, sia di fornirne anche una definizione esaustiva. Esattamente scrive: “Che cosa è allora, in termini scientifici, un complesso a tonalità affettiva? E’ l’immagine di una determinata situazione psichica caratterizzata in senso vivacemente emotivo che si dimostra inoltre incompatibile con l’abituale condizione o atteggiamento della coscienza. Questa immagine possiede una forte compattezza interna, ha una sua completezza e dispone di un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che è sottoposta soltanto in misura limitata alle disposizioni della coscienza, come un corpus alienum animato. Il complesso può di solito essere represso con uno sforzo di volontà, ma non eliminato e quando si presenta l’occasione opportuna riemerge con tutta la sua forza originaria.” (Jung, 1934, Op. Vol. 8, pag. 113).  

Da questa definizione possiamo dedurre come un complesso sia una reazione emotiva generalmente automatica che tende a manifestarsi dinanzi a determinate situazioni esterne capaci di “attivare” una specifica rappresentazione psichica posta alla base del complesso stesso.

Limitando quest’osservazione al complesso materno nella donna, argomento centrale di questo breve articolo, possiamo quindi supporre che esso si attivi potenzialmente in tutte quelle situazioni psichiche che in qualche modo riescono a rievocare affettivamente la relazione psicologica vissuta con la propria madre reale o fantasmatica. Essendo tale relazione estremamente ampia e variegata, intrisa di amore e conflitto, di piacere e talvolta dispiacere, di accoglienza ma anche di controllo, va da sé che il complesso materno possa attivarsi in una quantità considerevole di situazioni anche piuttosto distanti tra di esse. In senso stretto, secondo Jung, il complesso materno tende a concretizzarsi oltre che con la madre personale, con la nonna, con la suocera, con tutte quelle figure che possono fungere da madre spirituale quali una suora o in senso più elevato la Madre di Dio. Il lato ombroso di questa parte di complesso materno viene vissuto con quelle figure che paiono streghe, matrigne più che madri, arpie, filatrici di destino come le Parche o le Graie. Ci tiene a sottolineare Jung come anche la propria madre o la propria nonna, come si vede spesso nei sogni dei bambini, possano apparire più simili a streghe anziché a fate soccorrevoli. Con ciò egli intende  rimarcare il fatto che il complesso materno, riferito alle persone reali con cui si ha una relazione più vicina, possa caratterizzarsi positivamente o negativamente a seconda delle circostanze. In senso più ampio, il complesso materno, in particolare nella sua sfumatura di Madre-Terra, può fare la sua comparsa con l’istituzione per cui si lavora, nel rapporto che si nutre con la propria citta, con la propria patria; mentre il suo aspetto più naturale può essere esperito con il mare, con un lago, con un bosco, o con tutto ciò che richiama il tema Natura. Certamente, anche in questi casi, sia la madre Terra, sia la madre intesa come Natura possono svolgere un ruolo positivo, ovvero che favorisce il sentirsi parte di qualcosa e la crescita personale, o negativo, ovvero sia di un qualcosa che divora e chiude le proprie prospettive vitali anziché schiuderle.

Vista questa ampia fenomenologia del complesso materno che rischia di disorientare, afferma sempre Jung, è opportuno domandarsi come esso influenzi lo sviluppo psichico più generale nella donna. A tale questione, lo stesso Jung, ha dedicato un altro suo bel saggio, “L’Archetipo della Madre”, nel quale evidenzia come l’effetto generale del complesso materno nella donna sia quello di rinforzare o indebolire taluni aspetti della femminilità. Infatti, in alcuni casi il complesso materno può produrre un’ipertrofia dei tratti materni, rischiando di schiacciare la donna in questo lato della sua identità, mentre in altri può indurre la donna a vivere soprattutto l’aspetto erotico della sua femminilità a discapito dei tratti materni.  In altre occasioni ancora, il complesso materno nella donna si caratterizza in senso maggiormente negativo, ed è come se la portasse a dire se stessa “mai come mia madre”, allontanandola così dalla sua natura femminile.

Nel parlare di complesso materno nella donna, Jung sottolinea a più riprese come egli non ritenesse tale rappresentazione psichica una fedele e lineare copia della relazione con la propria madre reale. Per esempio, nel già citato lavoro sull’archetipo della madre, scrive: “La mia concezione si differenzia fondamentalmente dalla teoria psicoanalitica in quanto io attribuisco alla madre personale un’importanza solo limitata. E cioè: a svolgere sulla psiche infantile tutti gli effetti descritti dalla letteratura non è tanto la madre personale, quanto piuttosto l’archetipo sul di lei proiettato. Che le conferisce uno sfondo mitologico e la investe di autorità e numinosità. Gli effetti etiologici o traumatici della madre devono essere distinti in due gruppi: quelli che corrispondono a tratti del carattere o atteggiamenti realmente presenti nella madre personale; quelli che si riferiscono a caratteristiche che essa possiede solo in apparenza, laddove si tratta di proiezioni di carattere fantastico di cui è autore il bambino.” (Jung, 1938/1954, pag. 33). Questa visione così originale del rapporto madre-figlia e del collegato complesso materno [1] ha delle importanti ripercussioni implicazioni cliniche che pare opportuno considerare. Il limitare il ruolo della madre personale nella formazione del complesso materno nella donna permette, in ambito terapeutico, di non colpevolizzare eccessivamente la figura materna e di cogliere anche il proprio contributo nel modo che si ha di percepire ed esperire la propria madre personale e numerose altre situazioni che coinvolgono in qualche modo questo snodo cruciale della psiche che chiamiamo complesso materno. Tale modo di approcciare la questione, sostanzialmente, rende il tutto più trasformabile. Numerose volte in analisi tante donne rimangono “bloccate”, continuando quindi a soffrire emotivamente per taluni contenuti, nelle loro narrazioni che, per quanto poggino su solide basi, finiscono con il condurre ad una stasi. “Se mia madre non fosse stata in quel modo…sarei diversa, oggi tutto sarebbe diverso. Avrei fatto questo e quest’altro…”, in un crescendo di rimpianti che feriscono e che paiono rendere il passato un’ombra pericolosa che si allunga sempre nel presente. Tuttavia l’approccio junghiano aiuta a non cadere dentro un approccio esclusivamente personalistico alla psiche anche nella relazione che è forse la più personale che ci sia, quella madre-figlia, perché non ritiene la psiche l’equivalente di una tabula rasa, ritenendola bensì dotata di uno sfondo, da Jung chiamato inconscio collettivo, molto più esteso. E’ proprio la collocazione del complesso materno, e se si vuole anche la relazione madre-figlia con tutte le sue fantasie e aspettative reciproche, in questo sfondo che permette sia un’evoluzione e una trasformazione dello stesso, sia una comprensione e una narrazione di se stessi più ampia capace di liberare realmente dal passato personale. A tal proposito ha osservato Hans Dieckmann (1991), analista che ha dedicato decenni allo studio dei complessi psichici, come un confronto con il complesso, cioè il cercare di divenirne consapevoli in tutte le sue angolazioni emotive, personali, storiche, fantasmatiche, ne permetta uno “scioglimento” che riesca poi a lasciare spazio all’emergere di altre risorse e possibilità psichiche.

Tale lavoro di scioglimento, per quanto riguarda il complesso materno nelle donne, presenta spesso una sua peculiarità. Marie-Louise Von Franz (1983), riflettendo approfonditamente su fiabe che hanno per protagoniste eroine femminili che devono misurarsi con qualche figura di Grande Madre, quali “Vassilissa la Bella” o “la Gatta”, rileva come lo sviluppo psichico femminile passi più per lavori di pazienza [2] e isolamento che non attraverso imprese eroiche, come l’uccisione del drago, che si incontrano tipicamente nelle fiabe con eroi maschili. Secondo Von Franz tale diversità è dovuta, e ciò trova una certa conferma nel lavoro analitico, al fatto che le donne sono molto più inclini ad essere relazionali rispetto agli uomini. I loro rapporti sono emotivamente più ricchi, sentiti e vicini, ma talvolta, proprio a causa di ciò, espongono l’identità personale al rischio di fusione e con-fusione con l’altro. Ritornando sull’osservazione di Jung, riportata poc’anzi, relativa al fatto che il complesso materno rinforza o indebolisce alcuni aspetti della femminilità, possiamo adesso notare meglio, tenendo conto della natura relazionale delle donne, come questo per una donna possa voler dire che taluni tratti della sua identità femminile corrano il rischio di essere vissuti per interposta persona. Ciò è talvolta evidente in alcune amicizie tra donne [3], o talvolta nello stesso rapporto madre-figlia. Rapporti che non a caso paiono spesso avere qualcosa di “cementificato” e di indissolubile nel tempo. Per esempio, talvolta una figlia rischia di rimanere sempre tale perché idealizza eccessivamente la madre, non riuscendo a contemplare in se stessa la dimensione della maternità. In altre parole, quindi, è come se il complesso materno nella donna e la conseguente relazione madre-figlia costituissero la base di partenza per l’attribuzione reciproca di parti di sé all’altra.

Un buon percorso terapeutico, da quest’angolazione, favorisce nelle donne una maggiore “separazione” individuativa di cui possiamo trovare, secondo Von Franz, il corrispondente mitologico nella fase della “pulitura del grano” che incontriamo in tante fiabe femminili. Separare i chicchi di grano che formano il complesso materno e la base della relazione madre-figlia equivale a capire cosa appartiene a chi. Un lavoro di fatica e perseveranza che può tuttavia aiutare la donna a vivere più consapevolmente e liberamente su di sé le varie e complesse sfumature che la caratterizzano.

[1] Nella concezione junghiana il rapporto madre-figlia è sostanzialmente influenzato dalla struttura archetipica di entrambe. Non a caso scrive esattamente Jung: “L’archetipo della madre costituisce il fondamento del cosiddetto complesso materno.” (Jung, 1938/1954, pag. 35).

[2]  Altri esempi di fiabe nelle quali è possibile notare come alla protagonista è richiesta un’incredibile pazienza e capacità di saper cogliere il momento opportuno sono “Cenerentola” e “Amore e Psiche”.

[3] A tal proposito si pensi per un attimo alla nota serie televisiva “Sex and City”, dove tale fenomeno del vivere solo in forma proiettata lati della propria femminilità pare piuttosto evidente.

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