La Rabbia e il Fermarsi

La Rabbia e il FermarsiLa rabbia, insieme alla felicità – alla paura – alla tristezza – al disgusto, è generalmente considerata una delle emozioni di base dell’uomo. E’ un’emozione primaria perché, al pari delle altre già citate emozioni di base, svolge una funzione adattiva: davanti ad una minaccia o ad un pericolo essa facilita l’attivazione di una risposta adeguata che sia capace di fronteggiare la stessa situazione minacciosa/pericolosa che l’ha inizialmente innescata.

Gli studi etologici, su tutti quelli del grande Konrad Lorenz, dimostrano ampiamente ciò, mettendo in luce come essa sia direzionata verso il raggiungimento di scopi specifici. La rabbia in un leone alfa può per esempio assumere una doppia valenza: una intraspecifica, per difendere il suo primato di maschio dominante nel gruppo, e una verso altre specie per scopi puramente nutritivi. Una volta raggiunto l’obiettivo la rabbia del nostro leone alfa si placa. Tale esempio fornisce un’idea di quanto la rabbia contribuisca all’adattamento di un determinato animale, in questo caso il leone, ma va da sé, naturalmente, che ciò possa essere esteso anche ad altre specie.

Senza scomodare altri animali, è possibile osservare come la rabbia favorisca l’adattamento e la sopravvivenza anche nell’uomo. Un infante che non dispone di un linguaggio articolato, per esempio, talvolta riesce a richiamare l’attenzione e a far capire all’adulto che qualcosa non va grazie al suo dimenarsi, al suo agitarsi, al suo scuotersi, ovvero, in tre parole, al suo arrabbiarsi. Più in generale, tale funzione adattiva della rabbia è osservabile anche in altre età e/o in altri contesti. Giusto per fare un paio di esempi, possiamo pensare a come un adolescente abbia talvolta bisogno di sfoderare una certa rabbia verso il proprio gruppo di pari per trasmettere ai suoi coetanei l’idea di come egli possa essersi sentito umiliato ed escluso in alcune circostanze dal gruppo stesso, e ciò, fortunatamente, tante volte re-equilibra le relazioni inter-gruppali; oppure possiamo pensare a come uno sportivo, se vuol raggiungere determinati risultati, debba in qualche modo poggiare su una sana rabbia agonistica capace di renderlo determinato, ma non scorretto verso gli altri. La rabbia, in estrema sintesi, può facilitare una positiva assertività, se poggia su una aggressività limitata nel tempo, nello spazio, e nella direzione.

Non sempre va così, in moltissime persone la rabbia non assume questa forma circoscritta e transitoria, pare bensì un fenomeno molto più diffuso, prolungato nel tempo, e generalizzato. Cosa accade in queste occasioni dal punto di vista psicologico? In poche parole possiamo dire che una persona vive male, come schiacciata da una frustrante insoddisfazione generale, perché costretta a esperire quotidianamente una tensione di fondo legata ad una rabbia che per alcuni versi pare tuttavia decisamente eccessiva rispetto ad un tram tram giornaliero che è più o meno lo stesso per tutti. Mattia Torre, scomparso purtroppo prematuramente, aveva il dono di saper osservare e di saper raccontare con parole illuminanti il nostro muoverci quotidiano. Ed ha scritto anche di rabbia: proviamo – diceva – rabbia per il traffico, per il parcheggio che non c’è, per il troppo caldo o per il troppo freddo, per la fila in banca o alla posta, per il telefonino senza campo, per i programmi triti e ritriti della televisione, per i lavori nel condominio, per i colleghi che fanno sempre qualche errore, per i soldi che non bastano mai, per la scuola che non funziona, per il corpo che non è più quello di una volta, per la raccolta differenziata che è faticosa, per il caffè bruciato, ect… In poche parole, questa rabbia ci accompagna sempre. E tutto ciò finisce con lo svuotarci. Per questo scriveva: “La rabbia è un sentimento prezioso. Non disperdiamola.” Perché se tutto suscita rabbia, alla fine non si capisce neanche più cosa la susciti realmente.

Se tutto questo lamentarsi rabbioso ha comunque un che di spropositato, perché allora c’è tutta questa tensione e rabbia in giro? Domanda insidiosa, a cui non è facile trovare una possibile risposta. La psicologia del sé di Heinz Kohut ha sottolineato come la rabbia cronica sia fondamentalmente collegata alla ferita narcisistica del non essere riconosciuti e visti come persone con una propria specifica unicità e peculiarità. In altre parole, la mancanza di uno sguardo affettuoso, intimo, accogliente, capace di riconoscere l’essenza dell’Altro, da parte dei care-givers, è così frustrante e intollerabile che non si può non reagire con una certa rabbia satura di sdegno: “Voi mi avete rifiutato, e io rifiuto tutto il resto perché niente è alla mia altezza,” sembrerebbe dire inconsciamente -secondo Kohut – il bambino prima e l’adulto poi trascurato. In effetti, tali osservazioni kohutiane, non di rado sembrerebbero trovare una conferma in quei tanti racconti che in ambito clinico trasmettono tutto il peso del cosa può aver comportato l’essere cresciuti con figure per lo più assenti dal punto di vista affettivo ed empatico. Tuttavia, la rabbia che stiamo descrivendo non pare affatto un’esclusiva delle persone che iniziano un percorso terapeutico, bensì sembrerebbe un fenomeno così marcatamente diffuso da non poter essere solo spiegato e compreso dalle pur interessantissime osservazioni di Kohut. Per rendersi conto di come la rabbia sia ampiamente diffusa, del resto, può essere sufficiente dare un’occhiata ai social per vedere come trabocchino di un’aggressività che confina con l’odio. E di conseguenza, o tutti i genitori lascerebbero davvero tanto a desiderare, oppure deve esserci qualche altro aspetto da considerare per spiegare questa presenza massiccia di rabbia in circolazione.  Da questo punto di vista, i padri della psicoanalisi Sigmund Freud e Carl Gustav Jung possono aiutarci ad approfondire tale delicata questione. Per entrambi, l’uomo non viene al mondo solo dotato di una luce positiva. Freud riteneva che l’uomo fosse attraversato, oltre che da una pulsione di vita, anche da una pulsione di morte; mentre Jung osservava come dentro l’uomo risiedessero sia il Bene che il Male, e quest’ultimo non poteva essere ridotto semplicemente ad una privatio boni. Come se l’uomo, quindi, potesse anche essere animato da una certa distruttività.

Se tentiamo di calare queste considerazioni di questi grandi maestri nella nostra attualità, dove potremmo vedere all’opera tale distruttività, che si manifesta soprattutto per mezzo della rabbia, nell’uomo moderno? Naturalmente potremmo facilmente rispondere già solo notando come tutto il pianeta sia attraversato da guerre e conflitti per il potere, tuttavia scopo di questo breve articolo è più che altro quello di cercare di cogliere tale distruttività nel quotidiano di ognuno. Anche nel nostro microcosmo, come per le guerre del macrocosmo, c’è di mezzo una questione di potere, ma si tratta di un potere diverso: il potere affascinante e per alcuni versi devastante della perfezione. E’ un pochino come se fossimo catturati, chi più chi meno, da una fantasia di perfezione. Uno dei capolavori di Stanley Kubrick, “2001 Odissea nello Spazio”, se visto sotto questa lente, è emblematico di tale fantasia collettiva del nostro tempo. In una missione spaziale, di cui solo 3 scienziati ibernati conoscono il vero scopo, il computer di bordo Hal 9000, ad un certo punto della vicenda, inizia a non rispondere più ai comandi del capitano e del vicecapitano. Egli ritiene sé stesso, parole tratte dal film, “incapace di sbagliare” e ciò, crede, “è il massimo che qualsiasi entità cosciente possa mai sperare di fare.” Non riesce quindi davanti ad un errore a prendere in considerazione l’ipotesi che possa aver compiuto un errore di calcolo, e di conseguenza si rifiuta di ubbidire ai suoi superiori che lo invitano ad agire diversamente. Al di là di tutte le implicazioni del rapporto uomo-macchina, tema a cui Kubrick era affezionato, possiamo avanzare un’interpretazione psicologica sul rifiuto di Hal di sottostare agli ordini dei suoi superiori: nel momento in cui si intravede il traguardo della perfezione, tale perfezione finisce con il comportarsi come un contenuto autonomo della psiche. In termini junghiani possiamo parlare di complesso autonomo, che come suggerisce la parola stessa si muove in maniera autonoma rispetto a tutti gli altri aspetti e lati della psiche. Ritornando sul nostro esempio, è come se la tendenza alla perfezione di Hal 9000 lo dominasse e lo rendesse cieco e incapace di coordinarsi con tutto il resto dell’equipaggio.

Noi, a ben vedere, ci troviamo in una condizione simile. E’ come se fossimo attraversati, in maniera velata, dalla fantasia di essere efficienti e produttivi come una macchina. Corriamo, corriamo, assumiamo sempre più impegni, lavoriamo sempre di più, produciamo sempre di più, e poi non tolleriamo, o tolleriamo poco, che le cose non vadano come da programma. In questo si vede la nostra pericolosa somiglianza con le macchine, o con l’Hal 9000 di “2001 Odissea nello Spazio” per restare sull’esempio precedente. Per questo, forse, ci arrabbiamo tanto per le tante seccature che il vivere quotidiano ogni giorno ci pone davanti.  Probabilmente, però, c’è anche dell’altro. Questa corsa continua alla fine stanca, snerva, sia perché con ogni probabilità è sovraumana in quanto al di sopra dei nostri ritmi più naturali, sia perché finisce con il confondere rispetto al senso dell’esistenza. Andare sempre ad un ritmo così forsennato, in sintesi, comporta un prezzo da pagare: l’essere costantemente irritati, nervosi, pronti a far fuoriuscire rabbia, e in ultimo, ma non per importanza, smarriti sul significato del nostro agire. Da questo punto di vista potremmo allora intendere la rabbia come una spia psicologica che induce a riflettere sulla necessità di fermarsi e di rallentare.

Fermarsi, rallentare, attendere, azioni che attualmente tendono a mettere in difficoltà chiunque. Ancora Mattia Torre: “Attendere è una cosa che non si riesce più a fare. L’attesa ci è divenuta insopportabile, questa é l’era dell’azione, se devo stare fermo allora mi drogo. Mi drogo di qualcosa. Fermo, io, cittadino, non posso più stare.

Tuttavia può valerne, e molto, la pena provarci. Nella sua bellissima autobiografia, Carl Gustav Jung racconta di una viaggio in Kenia nella zona degli Athi Plains: “Fino all’estremo confine dell’orizzonte vedevamo immense mandrie di animali: gazzelle, antilopi, gru, zebre, facoceri, e così via. Pascolando, volgendo qua e là la testa, le mandrie avanzavano lentamente. Non si udiva alcun suono, tranne il malinconico grido di un uccello da preda. Era la quiete dell’eterno principio, il mondo come era stato da sempre, nello stato del non-essere: perché fino allora nessuno era stato lì per riconoscere che era quel mondo. Mi allontanai dai miei amici, fino a non vederli più, e assaporai la sensazione di essere completamente solo. Eccomi quindi, primo essere umano a riconoscere quello che era il mondo, e questo, grazie a quel riconoscimento, allora soltanto era veramente creato.” Aggiunge poco dopo che “l’uomo è indispensabile al compimento della creazione” e lo ritiene addirittura “il secondo creatore del mondo”, perché è solo quando qualcosa lo si scopre a livello cosciente che se ne coglie in pieno il significato. Prima era solo un qualcosa che stava semplicemente lì, quasi dimenticata e senza valore. Ergo, solo quando qualcosa la vediamo realmente ne capiamo l’importanza. E andando troppo veloci e spediti, il significato di ciò che veramente conta si perde. Forse per questo siamo sempre un po’ carichi di rabbia, perché a forza di fare-fare, abbiamo un pochino perso di vista la dimensione dell’essere. Provare a tornarci è già di per sé un modo per smaltire l’eccesso di rabbia che rischia di dominarci.

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