Conseguenze Psicologiche dell’Assenza del Padre

Volendo dare un seguito al discorso sul padre iniziato con il precedente articolo “Il Padre in Occidente: dall’ Antica Grecia ai giorni nostri”, possiamo notare come nelle sue opere Carl Gustav Jung analizzi il padre da due differenti livelli: archetipico e personale. Per capire cosa intenda Jung nel momento in cui parla di padre archetipico, trovo opportuno citare un insieme di passi del maestro zurighese che ci permettano di avere un quadro generale di questo concetto. In “Anima e Terra” (1927-1931), paragona l’archetipo paterno allo Yang cinese: “Esso determina la relazione con il sesso maschile, con la legge e con lo stato, con l’intelletto e con la mente, e con la dinamica della natura. E’ ciò che nel mondo si muove, come il vento, è ciò che crea e guida con pensieri invisibili, immagini d’aria. E’ il soffio del vento creatore – pneuma, spiritus, atman – ossia dello spirito. Il padre è immagine divina che tutto abbraccia, principio dinamico.” (Jung, 1927-1931, pag. 59). In “Simboli della trasformazione” (1912-1952) definisce meglio la sua idea sull’archetipo paterno: “Il padre è il rappresentante dello spirito, la cui funzione è quella di opporsi alla pura istintualità. Questo è l’ufficio archetipico che a lui compete indipendentemente dalle sue qualità personali.” (Jung, 1912-1952, pag. 259). In “Energetica psichica” ribadisce questa capacità del padre di opporsi all’essere semplicemente in preda alle pulsioni: “Il contenimento delle pulsioni è un processo normativo, o meglio nomotetico, la cui forza deriva dai binari inconsci ereditati. Lo spirito, in quanto principio agente della massa ereditaria, è composto dalla somma degli spiriti dei predecessori, dai padri invisibili la cui autorità nasce insieme con il bambino” (Jung, 1928, pag. 63). In “Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità” considera il padre un “auctor rerum” ed “energia primordiale” (Jung, 1942-1948, pag. 182).  Quando Jung parla del padre personale ne sottolinea il suo contribuire a portare un individuo verso l’esterno. Per esempio possiamo vedere come Jung, in “La funzione trascendente” (1916-1958), interpreti un sogno di un paziente nubile, a cui qualcuno tende una spada, rimarcando come l’arma in questione sia del padre del sognatore, il quale fornisce appunto uno strumento per compiere una grande impresa. Questa importante contributo del padre nel portare un individuo al di fuori della libido familiare viene evidenziato da Jung anche in “Simboli della trasformazione”, quando osserva che il padre dell’eroe “ è spesso un valente carpentiere o comunque un artigiano[1]  (Jung, 1912-1952, pag. 326).Se guardiamo queste considerazioni di Jung sul padre archetipico e su quello personale insieme, possiamo dedurne che Jung considerasse il padre un elemento che crea, che da stabilità attraverso la legge, che guida e che permette un’evoluzione dinamica grazie al suo essere energia. Nel suo descrivere il padre sia da una prospettiva archetipica che personale, Jung ritiene comunque che “dietro ogni singolo padre c’è l’immagine eterna del Padre” (Jung, 1931, pag. 45). Questo ritenere l’archetipo paterno la base dell’immagine del padre reale implica, da parte del bambino, che vengano proiettate sul padre quelle caratteristiche archetipiche in grado di favorirne l’evoluzione psicologica. Come scrive Hans Dieckman, “il padre personale non è né il creatore né la prima autorità, ma semplicemente lo schermo su cui va a proiettarsi un principio impersonale” (Dieckman, 1985, pag. 228). Edward Whitmont, dal canto suo, parla della fase dell’attivazione dell’archetipo, o meglio della “attuazione” dell’archetipo. Il padre personale costituisce l’occasione psichica perché l’archetipo si attualizzi, si incarni. Nella teoria di Jung l’archetipo paterno è quindi, come dice lui stesso in “La struttura della psiche” (1927-1931), un principio formulatore dell’esperienza, il quale per potersi manifestare necessita di incontrare il padre reale (o di una figura in grado di sostituirlo).Da quanto detto sino adesso, possiamo notare come le osservazioni di Jung sul padre e le considerazioni di Zoja (2003) sul valore psicologico del gesto di Ettore siano piuttosto simili: in entrambi i casi il padre funge da guida, attraverso il suo essere riconosciuto come tale dal bambino, per l’inserimento di quest’ultimo nel mondo esterno. Questa somiglianza ci rimanda, in maniera quasi naturale, al tema della scomparsa del padre, o meglio ci “obbliga” a verificare in che modo le trasformazioni del padre, di presenza fisica e/o psicologica accennate nel paragrafo precedente, influenzino il processo di sviluppo di un bambino.  L’assenza del padre, secondo Zoja (2001), influenza il livello di violenza giovanile. L’autore, per fare un esempio in proposito, evidenzia come l’85% dei detenuti statunitensi sia privo di padre. Nei casi meno estremi, sempre secondo Zoja (2003), l’assenza del padre porta l’adolescente, con una propensione maggiore rispetto ai casi in cui la figura paterna è presente nella vita del figlio, ad entrare in contatto con gruppi giovanili potenzialmente devianti. Di Renzo (2001) riporta uno studio effettuato su 400 ragazzi pre-adolescenti diagnosticati come soggetti con “Disturbo da deficit di attenzione e comportamento dirompente”, arrivati alla sua osservazione a causa di difficoltà nel rendimento scolastico, in cui è possibile notare come questi ragazzi fornivano al riquadro 4 del test di Wartegg, storicamente riferibile ad una dimensione paterna, una percentuale statisticamente significativa di risposte inadeguate [2]. Lo studio più ampio fatto sull’assenza del padre fisica e/o psicologica è forse una ricerca longitudinale condotta da M. Lamb (2004), su richiesta del governo americano. Questo autore ha cercato di studiare il rapporto padre-figlio classificando l’interazione tra i due membri della diade in tre categorie: accessibilità, responsabilità, impegno attivo. In questa ricerca l’accessibilità indicava la quantità di tempo in cui il padre era fisicamente insieme al bambino, ma con un coinvolgimento limitato e di tipo indiretto (per esempio il bambino gioca e il padre nella stessa stanza svolge il suo lavoro); la responsabilità evidenziava il diretto coinvolgimento del padre in attività in grado di promuovere il benessere del bambino (per esempio il sostegno economico, l’assistenza in caso di malattia); mentre l’impegno attivo comprendeva tutte quelle attività in cui il padre stabiliva un’interazione diretta e personale con il bambino. Lamb (2004) ha concluso il suo studio facendo notare come i bambini con un padre accessibile e responsabile, ma non impegnato attivamente, mostravano uno sviluppo psicologico non particolarmente diverso dai bambini che non avevano un padre accessibile. In altre parole, secondo Lamb (2004), il padre può aiutare il proprio figlio ad avere una maggiore autostima, migliori competenze sociali, un livello di rendimento scolastico maggiore, un comportamento maggiormente pro-sociale, solo se è realmente coinvolto nell’interazione con il figlio. Volendo fare un’analisi non solo descrittiva ma anche psicodinamica, dell’assenza fisica e/o psicologica del padre, possiamo notare almeno due aspetti che sembrano rilevanti per lo sviluppo del bambino: in primo luogo come osservano sia C. Tacchini (2001), sia Di Renzo (2001), è probabile che aumenti il peso del complesso materno; in secondo luogo il bambino avrà delle difficoltà, come nota Guy Corneau (1991), nel saper rinunciare alla soddisfazione immediata dei bisogni pulsionali.In relazione al primo punto la Di Renzo (2001) rileva come il padre svolga una funzione di terzo rispetto alla diade madre-bambino, in grado di favorire un contenimento prima e una separazione poi della diade stessa. Secondo la Di Renzo, il padre può fare ciò perché, essendo estraneo alla fusionalità del rapporto madre-bambino, può contenere quelle angosce arcaiche in cui la madre è troppo coinvolta. Il padre, sia che venga visto in termini edipici, pre-edipici o archetipici, secondo l’autrice, è sempre portatore di quel limite e di quell’alterità necessari per aprirsi a relazioni che vadano oltre la relazione primaria madre-bambino. Secondo Tacchini (2001) quando la figura paterna non è presente nella vita del bambino, viene a mancare quella modulazione che il padre esercita sul complesso materno il quale può essere inteso come quel complesso che “spinge (il bambino) a restare adeso[3] ad una madre che, in quanto sola a crescerlo, continua ad avere un potere enorme ed unilaterale sull’evoluzione del figlio” (Tacchini, 2001, pag. 125).Aumentando il ruolo del complesso materno, osserva Corneau (1991), il bambino non riesce, proprio per gli aspetti fusionali del complesso materno, a sentire i suoi impulsi e i suoi desideri come qualcosa che può rimandare o su cui può pensare[4]. Secondo l’autore, quando il bambino è fuso con la madre, di fatto non ha una minima separazione tra l’Io e l’inconscio che possa permettergli di vivere e di elaborare i suoi impulsi interiori come istanze interne, senza che questi vengano agiti. Dalle considerazioni di Corneau si evince che la carenza psicologica e/o fisica del padre non aiuta il bambino, cosa del resto evidente nei dati descrittivi citati all’inizio di questo paragrafo, nel modulare la sua aggressività. Secondo Fonagy ciò avviene perché il padre, fungendo da elemento terzo tra la madre e il bambino, “fornisce al bambino una prospettiva ulteriore su se stesso e gli consente di pensare a se stesso in relazione ad un’altra persona.” (Fonagy, 2001, pag. 267). In pratica, secondo Fonagy, il padre con la sua presenza emotiva permette al bambino di mentalizzare la relazione con sua madre. Il padre che permette al bambino di mentalizzare la relazione con la propria madre, dal punto di vista di Corneau (1991), di fatto facilita quella separazione tra l’Io e l’inconscio necessaria per riuscire a sentire il proprio mondo interno come separato dalla realtà esterna. Ciò avviene perchè il bambino, prima di questa separazione decritta da Corneau (1991), può essere considerato un tutt’uno con la madre, pertanto “la separazione e la differenziazione dalla madre, “l’individuazione”, produce quella messa a fronte tra soggetto e oggetto che è il fondamento della coscienza” (Jung, 1912-1952, pag. 391), la quale può essere considerata una funzione o attività che fa sì che determinati contenuti psichici siano avvertiti ed esperiti come coscienti dal complesso dell’Io (Jung 1921).Jung in “L’importanza del padre nel destino di un individuo[5]” (1909-1949) evidenzia questa funzione del padre nel far sviluppare la coscienza facendo notare, attraverso l’illustrazione di un caso clinico[6], come il bambino spesso abbia paura del padre perché quest’ultimo è contrario alla sua tendenza a “rimanere incosciente e infantile”.  In altre parole, secondo Jung, il padre incarnando l’archetipo paterno aiuta il bambino nel far evolvere la sua coscienza, anche con una certa brutalità[7].   Da quanto detto sino adesso possiamo dedurre che lo sviluppo della coscienza, con le discriminazioni che permette di fare al bambino, costituisce una fondamentale pre-condizione del processo di individuazione perché “dove non vi è coscienza, dove regna ancora sovrano l’elemento istintuale inconscio, non vi è riflessione, non vi è un pro e un contro, c’è solo un semplice succedersi di eventi, un’ordinata istintualità, proporzione di vita.”  (Jung, 1921, pag. 120).La separazione tra coscienza e inconscio, facilitata dalla presenza attiva ed emotiva del padre, costituisce una necessaria premessa per il processo di individuazione perchè crea le condizioni affinché possa esserci un’attività simbolica[8] nella psiche (Di Renzo 2001).Infatti, per Jung, il simbolo è il frutto della cooperazione tra inconscio e coscienza essendo composto dai “dati di tutte le funzioni psichiche” razionali e irrazionali (Jung, 1921, pag. 488).Nella concezione junghiana il simbolo è un qualcosa di ben distinto da un segno semeiotico che sostituisce un significato con un altro. Per Jung (1921) il simbolo è la migliore espressione possibile di un contenuto che non riesce ad essere espresso in una maniera più chiara, è un qualcosa di vitale con una pregnanza di significati. Il simbolo, che è il prodotto della contrapposizione di inconscio e coscienza e non il semplice risultato di una delle due istanze, riesce ad andare oltre la tensione tra opposti e ad aprire la strada a nuove possibilità psichiche. Il simbolo, tra le opposte polarità di inconscio e coscienza, come si coglie dall’etimologia stessa della parola (symbolon deriva da symbollein che significa congiungere, tenere insieme, unire) riesce a ricongiungere in maniera nuova gli opposti in conflitto.Concludendo il discorso sull’attività simbolica e sull’assenza della figura paterna si può dire che se è vero che il padre, separando il bambino e la madre, crea quello spazio psichico di cui necessita la capacità simbolica, possiamo affermare che con la sua presenza, o la sua assenza, indirettamente favorisce o sfavorisce l’individuazione proprio perché il processo individuativo consiste “nella sintesi di conscio e inconscio” (Jung, 1912-1952, pag. 297), che avviene attraverso l’integrazione dei simboli che si incontrano nel proprio percorso personale.
[1] Per evidenziare questa funzione paterna dell’offrire degli strumenti necessari per l’impresa, Jung per fare degli esempi cita: Tare, il padre di Abramo, eccelleva nel produrre frecce; Tvstar, padre di Agni, era il foggiatore del mondo con il suo essere fabbro, carpentiere e produttore del fuoco attraverso la trivellazione; Kinyras, padre di Adone, aveva inventato il martello; Efesto, il padre di Ermete, era artigiano e scultore.
[2] Nel 4° riquadro del test di Wartegg il segno-stimolo è rappresentato da un piccolo quadratino nero che, sulla base di una ricerca fatta dalla stessa Di Renzo su 10000 ragazzi, ha mostrato la capacità di evocare immagini di stabilità e solidità attribuibili alla dimensione paterna. Le risposte considerate adeguate raffigurano elementi architettonici come palazzi, costruzioni, o comunque rappresentazioni geometriche solide. Le risposte dei 400 ragazzi afflitti da “Disturbo da deficit dell’attenzione e da comportamento dirompente”, studiati dalla Di Renzo, al 4° riquadro del test di Wartegg tendevano o a raffigurare volti disumanizzati, come pupazzi, clown e robot, oppure a rispondere disegnando contenuti minacciosi, come per esempio può essere una presa elettrica.
[3] Se è vero che Jung nelle sue opere (1938-1954) ha spesso sottolineato il fatto che la diade madre-figlio possano costituire una coppia di amanti, dove la madre finisce con il costituire una cappa nei confronti della vita del figlio che ne impedisce la crescita, è anche vero che ha evidenziato alcuni aspetti positivi del complesso materno, quali l’accoglienza, il calore, la comprensione, capacità di aprirsi ad aspetti fantasiosi ed irrazionali. Tuttavia in questa tesina interessa rimarcare come l’assenza del padre favorisca un’accentuazione degli aspetti protettivi e divoranti della madre nei confronti del figlio.
[4] In precedenza già Biller H. in “La privazione paterna” (1978), senza fare le stesse considerazioni psicodinamiche di Corneau, aveva sottolineato come i bambini senza padre fossero molto più propensi, rispetto ai bambini con padre, ad ottenere una gratificazione immediata dei loro desideri.
[5] Per evidenziare quanto per Jung fosse importante la funzione paterna consistente nel far sviluppare la coscienza, mi si permetta di far notare come questo suo scritto sia l’unico, tra i suoi numerosi lavori, ad arrecare la parola “padre” nel titolo.
[6] Il caso clinico in questione è relativo ad un bambino di 8 anni che non “lascia mai le gonne della mamma” (Jung, 1909-1949, pag. 93), di cui Jung prende in considerazione due sogni: nel primo un uomo nero cattivo è sdraiato nel suo letto con un fucile o una spada, nel secondo ci sono grossi serpenti neri o uomini cattivi che vogliono uccidere la madre. Jung rileva il fatto che, in questi sogni, il bambino e la madre correndo lo stesso tipo di pericoli ci informano sulla loro identità inconscia, che il padre, qui rappresentato secondo Jung dal motivo mitologico del padre-animale, cerca di superare con i suoi attacchi finalizzati ad evitare una regressione della coscienza.
[7] Non casualmente Jung ha scritto: “dietro il padre sta l’archetipo del padre, e in questo tipo preesistente sta il segreto della violenza paterna, così come la forza che costringe l’uccello a migrare non è prodotta da lui stesso, ma deriva dai suoi antenati”  (Jung, 1909-1949, pag. 97).
[8] Può essere interessante osservare come anche secondo un autore non junghiano, quale Lacan, il padre ha un ruolo estremamente significativo nel far si che il bambino arrivi ad una fase simbolica della vita. Secondo Lacan il bambino desidera inizialmente essere il complemento di sua madre e cioè il fallo, ovvero desidera essere il desiderio di sua madre, ciò che la madre desidererebbe. Nella primaria relazione diadica prevalgono quindi la non distinzione, l’identificazione narcisistica, l’alienazione. Questa situazione vitale di partenza fa attribuire a Lacan una particolare importanza, ai fini dell’evoluzione psichica del bambino, al complesso edipico. Secondo l’autore, lo stadio dello specchio rappresenta il primo stadio dell’Edipo.
Il secondo stadio sopraggiunge quando l’intervento del padre provoca il forzato distacco dalla madre e l’accettazione della Legge del Padre; nel terzo stadio, conclusivo dell’Edipo, il bambino s’identifica col padre ed è in questa fase che egli, appropriandosi del linguaggio e della Legge tramite il padre, entra nel simbolico.
Il bambino che si identifica con il padre incorpora la legge ed incorpora ciò che il padre possiede e ciò che lui stesso vuole avere: il fallo. Occorre precisare che per Lacan il fallo non indica sesso biologico, ma costituisce una metafora paterna. Metafora che permette, secondo l’autore, lo strutturarsi di un gioco di rimandi tra significati e significanti (in base a quella che è la concezione linguistica dell’inconscio di Lacan) (Cortese, 2001).

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