L’Arte nel Pensiero e nella Vita di Carl Gustav Jung

L’Arte nel Pensiero e nella Vita di Carl Gustav JungTantissimi studiosi di psicoanalisi e di psicopatologia si sono dedicati al cercare di capire la nascita e l’importanza psicologica di quei processi dinamici della psiche che conducono un artista a creare la sua opera d’arte. Ad inaugurare il filone di questi studi è stato Sigmund Freud con le sue riflessioni su “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino” di Leonardo da Vinci e sul “Mosè” di Michelangelo.

Lo psicoanalista viennese riteneva che un’opera d’arte originasse dalla biografia infantile del suo creatore e da un conseguente ritorno del rimosso, tuttavia, ed è questo probabilmente l’aspetto più interessante dal punto di vista della storia delle idee, ha riconosciuto nell’artista una capacità di sublimazione in quanto in grado di trasformare “le sue fantasie in una creazione artistica invece che in sintomi.” In altre parole, Freud ha avuto il merito di intuire un potenziale curativo all’arte.

Tale potenziale curativo è stato poi considerato da altri studiosi. Karl Jaspers, attento studioso di psicopatologia, si è chiesto per esempio quale fosse la relazione tra psicopatologia e arte, tra genio e follia. Cioè, l’arte influenza la patologia o costituisce un tentativo di guarigione messo in atto da una personalità che sarebbe stata destinata ad una malattia? – si è domandato Jaspers. Si è risposto ed ha risposto con la sua celebre metafora dell’ostrica, sposando di fatto l’idea che l’arte sia un tentativo per cercare di andare oltre una patologia [1]. Più precisamente ha affermato: “Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia.”

Dato per certo un potenziale terapeutico all’arte, altri studiosi hanno cercato di cogliere in termini più concreti il come l’arte potesse riuscire a sollevare, ad aiutare, una persona. E qui si potrebbe dire che ogni scuola di pensiero ha colto un elemento curativo dell’arte: Hanna Segal ha fatto notare come la creatività sia legata al cercare di ricreare qualcosa di perduto; Donald Winnicott ha osservato come sia connessa al gioco, e solo quando l’uomo è capace di giocare è totalmente sé stesso; Ernest Kris ha riflettuto sul come non di rado costituisca una regressione al servizio dell’Io volta a facilitare una reintegrazione della personalità; J. Chasseguet – Smirgel come l’arte sia un modo per riparare e riorganizzare un Sé con deficit narcisistici. L’arte è diventata così significativa per la psicologia che non a caso intorno alla metà del Novecento sono sorte vere e proprie scuole di arte-terapia, grazie al lavoro di Margaret Naumberg, psicoanalista più tradizionale che considerava l’arte uno strumento per far emergere contenuti inconsci, e soprattutto di Edith Kramer che ha focalizzato la sua attenzione sul fatto che l’arte fosse, e sia, un processo creativo che di per sé facilita la cura perché in grado di promuovere la risoluzione di conflitti interni alla personalità.

Tuttavia se c’è uno studioso del perimetro “psicologie del profondo” che merita particolarmente di essere segnalato per il rapporto intenso e stretto che ha avuto con l’arte, questi è certamente Carl Gustav Jung. Egli non solo ha sempre invitato i suoi pazienti a dipingere – disegnare – scolpire -danzare, ma egli stesso si è sempre dedicato al dipingere e allo scolpire. L’ha sempre fatto, sia per sé che in ambito terapeutico, con il proposito di fondo di riuscire a dare una forma visibile e osservabile a contenuti interiori e fantasie con le quali, proprio grazie a questa concretizzazione esterna, sarebbe poi stato più semplice stabilire una relazione psicologica significativa. A tal proposito, ripensando ad anni che per egli sono stati cruciali come quelli che sono andati dal 1913 al 1919, ha osservato: “Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rassicurato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora forse sarei stato distrutto dai contenuti dell’inconscio.” E già ciò dà l’idea di quanto Jung potrebbe essere considerato per alcuni versi un pioniere dell’arteterapia, tuttavia sapeva che il solo dare un’immagine di per sé e il raggiungere una comprensione senza implicazioni non sarebbero stati sufficienti ad evitare una certa frammentarietà psichica: “E’ un grande errore anche ritenere che sia sufficiente raggiungere una certa comprensione delle immagini, e credere così di aver messo tutto a posto. Chi non ritiene che la conoscenza debba convertirsi in un obbligo morale, diviene preda del principio di potenza, e ciò produce effetti dannosi, rovinosi non solo per gli altri, ma anche per lui stesso. Grande è la responsabilità umana verso le immagini dell’inconscio. Sbagliare a capirle, o eludere la responsabilità moral, significa privare l’esistenza della sua interezza, essere condannati a una vita penosamente frammentaria.” E tale lucidissima consapevolezza dà un’idea ancor più stringente di quanto psicologia e arte per Jung avessero un legame ancora più profondo, che non fosse solo legato ad una forma di arteterapia.

Il metodo junghiano dell’immaginazione attiva, che qui non verrà approfondito perché trattato altrove nel sito, a ben vedere discende proprio dall’esigenza di andare oltre il solo rapporto artistico con l’immagine, perché esso cerca di costruire un terreno psicologico che possa favorire un confronto, anche diretto e forte talvolta, con il contenuto Altro che si incarna e prende “voce” nell’immagine stessa, se non considerata appunto solo da una prospettiva artistica, che possa estendersi anche oltre il periodo di analisi.

Muovendosi in tale direzione, Jung ha percorso un passo in più nell’indagare il rapporto tra arte e psicologia, perché, rispetto ad altri studiosi che riuscivano a considerare l’arte solo in relazione ad una cura di sintomi, egli ha ritenuto l’arte e la creatività assolutamente basilari ai fini di una crescita/evoluzione della totalità della personalità più in generale. In altre parole, una relazione psicologica significativa per Jung, come può esserlo quella con un contenuto dell’immaginazione attiva, si estende oltre il, seppur importantissimo, momento di cura perché costituisce la base sulla quale sviluppare appieno le potenzialità intrinseche del Sé con cui si arriva al mondo. Per esempio, mentre la Kramer scrive di concepire l’arteterapia “principalmente come un mezzo per sostenere l’Io” che cerca “imbrigliare il potere dell’arte al compito di promuovere un’organizzazione psichica sufficientemente resiliente per funzionare sotto pressione senza rotture o la necessità di ricorrere a misure difensive ottuse”, Jung ritiene l’arte un “complesso autonomo” che è connesso all’istinto creativo presente in ogni uomo con il quale non ci si può non confrontare a prescindere dal discorso salute – malattia.

In una lettera inviata allo studente di filosofia Andras Horn nel Marzo del 1958 lo studioso svizzero scrive: “L’arte è senza dubbio un’espressione assai complicata dell’anima umana. Essa è in primo luogo, come negli animali, il prodotto di un istinto corrispondente che – come tutti gli istinti – si basa su condizioni esterne e interiori. Nell’uomo, l’istinto della percezione interiore si esprime nella forma dell’archetipo. E’ questa la sua condizione interiore. La sua condizione esterna sta nel rapporto dell’artista con il suo ambiente e nei mezzi espressivi a sua disposizione.” Questa idea che l’arte sia dovuta ad un istinto creativo presente nell’uomo, era agli occhi di Jung un qualcosa di quasi scontato perché l’arte ha sempre accompagnato la sua vita [2], ancor prima che ne scoprisse tutto il suo potenziale trasformativo. Riguardo la scelta professionale, in “Ricordi, Sogni, Riflessioni” racconta: “Segretamente pensavo all’archeologia, assira o egizia, e mi sarebbe piaciuto più essere un archeologo.” Poi, come noto, optò per gli studi di medicina e psichiatria sia per ragioni più pratiche, sia perché la psichiatria offriva vaste possibilità esplorative. Ed in effetti egli scoprì l’inconscio collettivo, che può essere ritenuto in tutta tranquillità lo strato più archeologico della psiche che si manifesta in maniera simile in epoche e culture diverse. Ed essendo arte e archeologia due settori ampiamente sovrapponibili, la scoperta dell’inconscio collettivo testimonia di per sé quanto la psicologia analitica di Jung sia per definizione così aperta all’arte al punto tale che le due materie, psicologia e arte, costituiscono due aree del sapere che non sono così separabili.

Tornando al discorso sull’arte come “complesso autonomo” su base istintiva, sia consentita una breve digressione che possa aiutare a chiarire il pensiero di Jung in proposito. Nel valutare un’opera d’arte, l’analista zurighese credeva che fosse fuorviante analizzarla prendendo in considerazione solo la biografia del suo autore. Procedere in tale direzione – diceva – costituisce una stortura: “La causalità personale ha con l’opera d’arte la medesima relazione che ha il terreno con la pianta che gli cresce sopra. La pianta non è semplicemente un prodotto della terra, essa è anche un processo che sta a sé, vivente e creatore, la cui essenza nulla ha a che vedere col carattere del terreno.” L’opera d’arte vista da questa prospettiva non è quindi sintomatica di qualcosa, bensì simbolica, ovvero contiene un quid che deve essere ancora compreso e integrato nella personalità. Seguendo questa angolazione arte e creatività, divengono strettamente collegate al più generale processo di individuazione di una persona, ovvero al suo divenire compiutamente sé stesso.

Questo collegamento tra arte-creatività-processo di individuazione è molto evidente nella vita di Jung. Chiunque abbia avuto modo di sfogliare “Il Libro Rosso”, il suo lavoro più privato e non a caso pubblicato postumo 50 anni dopo la sua morte, è ben consapevole che in esso si trovano delle bellissime miniature medioevali dipinte dallo stesso Jung, ma è anche che ben conscio che le stesse per Jung avevano un valore preminentemente psicologico. Non le considerava, e con ogni probabilità non voleva che da altri fossero, arte, bensì la chiave per accedere al dialogo interiore con le figure interne più significative della sua vita, Elia-Salomé-Filemone-Ka, che gli avrebbero permesso, come con profonda onesta psicologica racconta nella sua autobiografia, di sviluppare le sue idee, il suo pensiero, la sua prassi clinica, il suo modo di vivere. Per esempio, alla coppia Elia-Salomé riconoscerà di averlo aiutato a cogliere sino in fondo quanto pensiero e sentimento, se si vuol realmente comprendere qualcosa di sé, non possano essere disgiunti; mentre a Filemone renderà omaggio perché per egli è stato un insegnante prezioso che gli ha permesso di capire l’obiettività psichica, cioè il non cadere nell’errore che tutti i prodotti psichici dipendano dall’Io, e la “realtà dell’anima”, ovvero il fatto che dentro di noi ci sia una polifonia di voci.

Jung, come dimostra il fatto che nel 2013 sia stato esposto alla Biennale di Venezia, potrebbe essere anche visto come un’artista che non voleva essere considerato tale. Nel senso stretto del termine, aveva tutte le qualità pittoriche e scultoree, ma per egli l’arte non aveva un valore in se per sé, ma in relazione al comprendere, al capire, al trovare la propria strada nella vita, al trovare la propria vocazione. L’arte aveva un senso, dal suo punto di osservazione, solo se parlava all’uomo, se riusciva a connetterlo, o a riconnetterlo, con il suo istinto creativo e più in generale con il serbatoio delle immagini archetipiche che evitano all’uomo quel senso di spaesamento che, anche secondo tanti altri pensatori, caratterizza l’uomo contemporaneo.

Da ciò ne consegue che non è importante il risultato estetico del prodotto artistico, quanto la funzione che svolge. Seguendo questa linea di pensiero si capisce che l’arte non è ad appannaggio di pochi individui con un talento particolare, è bensì un qualcosa che costituisce un ponte sia per approdare verso un rapporto con la nostra creatività intesa in senso psicologico, e non in un senso solamente artistico, sia un modo per avvicinarsi agli strati più profondi della psiche.

E tutto ciò per Jung richiede una certa dose di etica, più che di estetica, che permetta, a chiunque al di là del talento artistico, di avere un rapporto sentito e nel quale si è disposti a prendere seriamente le implicazioni psicologiche che porta con sé un qualunque “prodotto artistico.” Il nostro e quello di qualunque paziente.

[1] Naturalmente che tale tentativo riesca o meno è un altro discorso, e dipende da vari fattori che possono far pendere la bilancia da un lato anziché sull’altro. Tuttavia in questa sede non è possibile, per ragioni di spazio, approfondire tali aspetti.

[2] Il rapporto stretto di Jung con l’arte si denota, oltre che dal suo esservisi ampiamente dedicato personalmente, da altri particolari, quali, per esempio, il vasto numero di testi artistici presenti nella sua biblioteca e l’evenienza che nei suoi numerosi viaggi in Europa, in Africa, In India, non trascurasse mai di interessarsi all’arte del luogo.

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