Società dell’Immagine e Cultura Junghiana delle Immagini

Società dell’Immagine e Cultura Junghiana delle Immagini Comunemente si ritiene che il linguaggio sia la caratteristica per eccellenza dell’uomo, in realtà è il pensare per immagini la peculiarità più tipica e antica che ci caratterizza. Anche altre specie, per esempio le api o i delfini, hanno “complessi” sistemi di comunicazione, nessun’altra dispone di capacità immaginativa. Per rendersene conto, basti pensare alle pitture rupestri di Altamura e Lascaux che segnalano come i nostri antenati fossero intenti a cercare di capire come affrontare e combattere animali pericolosi.

Non disegnavano per gioco o per diletto, bensì per necessità. E ciò lo facevano molto prima di saper scrivere. Anzi, a ben vedere è proprio la scrittura a testimoniare il primato psicologico dell’immagine. Le prime forme di scrittura erano infatti dei pittogrammi e degli ideogrammi, ovvero delle immagini usate al posto di una parola o di un’idea, che solo più tardi, con i Fenici e con i Greci, verranno sostituiti da un alfabeto fonetico simile a quello odierno. Questa circostanza, cioè il fatto che le prime forme di scrittura derivino da immagini, spiega benissimo perché le immagini per l’uomo siano da sempre così importanti: perché anticipano sviluppi, fanno intravedere nuove possibilità, favoriscono la nascita di nuove idee. In altre parole, permettono l’evoluzione umana. Grandi scoperte nella storia sono state anticipate da un comprendere per immagini. Per esempio, Watson e Crick riuscirono a scoprire la struttura a doppia elica del Dna, perché Watson la vide in sogno; oppure si pensi a come le scoperte sulla prospettiva del Brunelleschi e dell’Alberti abbiano anticipato una visione antropomorfica dell’universo che avrebbe poi contraddistinto i decenni e i secoli successivi.

Eppure nel secolo appena trascorso qualcosa pare essersi incrinato nel rapporto con le immagini. Il Novecento, con validissime argomentazioni, è stato definito “il secolo dell’immagine”, perché ha conosciuto un boom del cinema, della televisione, della pubblicità, della fotografia, e via dicendo. Con ogni probabilità, però, è proprio questo eccesso di immagini a costituire, come vedremo meglio tra poco, un punto critico nel rapporto con le stesse. E tale criticità sembra, tra l’altro, essersi ampliata a dismisura negli ultimi decenni. Con la tecnologia digitale, ovvero una tecnologia che non necessità più di un oggetto reale esterno, viviamo in un flusso continuo di immagini, anche perché i dispositivi che funzionano nello stesso modo possono potenzialmente rilanciare/riproporre la stessa immagine un numero infinito di volte. Uno studio dell’università della California ha calcolato che ogni giorno siamo mediamente inondati da 34 gigabyte di contenuti, un qualcosa che eccede moltissimo la nostra capacità elaborativa. Lo stesso ateneo ha stimato che la mole di informazione verbale e visiva a cui è sottoposto un cittadino statunitense medio sia quintuplicata negli ultimi 40 anni. In sostanza, tale aspetto è ancor più lampante se si considerano anche i social network, è come se ogni giorno scorresse dinanzi ai nostri occhi un fiume incessante di parole e immagini.

Lo studioso francese Régis Debray, autore dello stimolantissimo saggio “Vita e morte dell’immagine – Storia dello sguardo in Occidente”, ha brillantemente sintetizzato la situazione attuale osservando che siamo passati dall’epoca dell’immagine all’epoca del visivo. Il che vuol dire che, immersi come siamo dentro questo fluire di immagini, non siamo più capaci di vedere. Al massimo guardiamo in maniera distratta. Vedere significa fermarsi, indietreggiare, chiudere gli occhi per ascoltare l’effetto dell’immagine osservata. Vedere significa lasciar entrare un’immagine, farla penetrare in noi. Da questo punto di vista, vedere significa aspettare e sentire quello che l’immagine risveglia in colui/colei che la osserva. Vedere significa prestare una certa attenzione all’immagine che si sta vedendo. Ma con questo flusso continuo di stimoli si fatica a prestare un’attenzione di qualità. Per cogliere meglio questo aspetto, soffermiamoci un attimo su quanto accade non di rado con l’informazione. Dinanzi ad eventi significativi, in genere, veniamo solitamente sottoposti ad una quantità così abnorme di parole e immagini, si pensi alla vicenda ucraina degli ultimi tempi o prima ancora a quella del Covid, che siamo quasi costretti a far scivolare via il tutto. Non per mancanza di bontà d’animo, quanto per stanchezza. Più precisamente, diveniamo apatici, cioè senza pathos, freddi, indifferenti, e incapaci di sentire.

Questo problema legato al sentire lo segnalava già decenni addietro Italo Calvino nelle sue “Lezioni Americane”. In mezzo ad una marea di stimoli, ci perdiamo, non distinguiamo cosa potrebbe essere importante e cosa no. Perdiamo sentimenti e sentimento. Paradossalmente, quindi, siamo la società dell’immagine, ma non abbiamo più cultura dell’immagine, nel senso etimologico del non saper coltivare un rapporto profondo con esse. “Immagine” attualmente è infatti più che altro sinonimo di apparire in un certo modo, e non di qualcosa di cui prendersi cura perché da sempre ha contribuito all’evoluzione dell’uomo, inteso sia come singolo individuo che come collettivo.

Da questa angolazione, la psicologia analitica di Carl Gustav Jung ha molto da dare. Nella prassi terapeutica dell’analista svizzero, l’immagine ha sempre rivestito un ruolo centralissimo. Basti pensare a come ritenesse il sogno un’occasione per vedere quel non visto, di una situazione- di una relazione- di un atteggiamento, capace di ampliare la consapevolezza in qualunque individuo. Oppure a come ritenesse l’immagine, come ben si nota nella tecnica dell’immaginazione attiva, un’opportunità di comprensione legata al dare forma ed espressione ad un vissuto psicologico. Perché per Jung il dare forma non era solo una rappresentazione fedele di un contenuto psicologico, bensì una sua prima elaborazione. Come si vede da queste poche righe, in Jung è molto radicata una cultura sostanziata da un profondo rispetto per le immagini che oggi, ancor più che in passato, potrebbe essere estremamente utile.

Più in generale, per il maestro zurighese è più importante comprendere che non spiegare. In “Presente e Futuro” argomenta che per spiegare un fenomeno bastano ipotesi, numeri, connessioni causali, mentre per comprendere è necessario l’apporto del sentimento, ovvero un’intelligenza del cuore che aiuta nel cogliere l’interezza di una situazione. E le immagini vanno comprese più che spiegate. Prendiamo un sogno. Lo si può spiegare, e di conseguenza liquidare facilmente, dicendo deriva da questo o da quest’altro, dal rapporto con un genitore, o da quello con il partner, e via dicendo. Comprenderlo significherebbe invece cercare di lasciare spazio alle immagini, non perdendone di vista le caratteristiche e lasciando circolare liberamente dentro di sé, più che risposte, domande sul loro conto. Comprendere un sogno richiede darsi del tempo, perché per comprenderlo realmente, per renderlo cioè un’esperienza che ha veramente qualcosa da dire, è necessario evitare di ricondurlo a quanto già si conosce. Comprendere implica infatti il saper lasciar spazio a quanto vibra interiormente affinché qualche nuova intuizione possa venire fuori. Tutto questo vale per il comprendere in generale, ed implica una certa lentezza perché la comprensione, a differenza della spiegazione che è un qualcosa che c’è già, deve ancora assumere una forma compiuta.

Erling Kagge, scrittore e grande camminatore norvegese, può aiutarci nel capire l’importanza della lentezza ai fini del comprendere. Sia permessa una sua citazione piuttosto lunga, ma che vale la pena riportare per esteso: “C’è un consenso diffuso che andare da un posto a un altro in due ore invece che in quattro o in otto sia un risparmio di tempo. Da un punto vista matematico sembra corretto, ma l’esperienza mi dice il contrario: quando aumento il ritmo, il tempo scorre più veloce. Quando mi sbrigo non riesco a cogliere quasi niente. Se vai verso una montagna in macchina e lasci che i laghetti, le colline, le pietre, il muschio e gli alberi ti sfreccino accanto, la vita si fa più corta. Non puoi sentire il vento, gli odori, il tempo atmosferico o i cambiamenti di luce. Quando aumenti il ritmo, non è solo il tempo a ridursi, ma anche la percezione dello spazio. A un tratto sei alle pendici della montagna. Viene meno l’esperienza della distanza. Se quello stesso tratto lo percorri a piedi e ci metti un giorno invece di mezz’ora, allora respiri con più calma, ascolti, senti il terreno sotto i piedi e la giornata diventa tutt’altra cosa. Fare conoscenza con le cose che ti circondano richiede tempo. E’ come costruire un’amicizia. La montagna giù in fondo, che si trasforma via via che ti avvicini, diventa una buona compagna ancor prima che tu l’abbia raggiunta. Gli occhi, le orecchie, il naso, le spalle, la pancia e le gambe parlano e la montagna risponde. Il tempo si dilata, indipendentemente dai minuti e dalle ore. Camminare dilata ogni attimo.” Un andare lentamente, come ben si capisce dalle parole dello scrittore scandinavo, che non vuol dire affatto rinviare, temporeggiare all’infinito, rimuovere, bensì cercare di vivere con un intenso e sentito ascolto il rapporto con sé stessi e con quanto circonda. Qualcosa di analogo può accadere con le immagini interiori durante un’analisi junghiana. Nel seminario su Zarathustra, Jung riflette sul concetto di numinoso e scrive: “Esso deriva da un’antica esperienza: nell’antichità, quando un uomo doveva rivolgere una preghiera alla statua di un dio, saliva su un piedistallo di pietra che veniva eretto vicino alla statua per permettere alla gente di gridare le preghiere nell’orecchio del dio, in modo che le udisse. Dopodiché, si fissava l’immagine finché il dio non facesse un cenno con il capo, oppure aprisse o chiudesse gli occhi, o rispondesse in qualche maniera; a quel punto il dio dava un cenno, il suo assenso o il suo rifiuto, o qualunque altra indicazione. Questo è il “numinosum”.”  Detto in parole più semplici, l’immagine va fissata con calma e lentezza, affinché possa cioè esprimere le possibilità di cui è portatrice. Così come possiamo essere toccati da un paesaggio perché per alcuni versi vivo, così possiamo essere smossi dalle immagini interiori di un sogno se riusciamo a sostarvi senza fretta. In entrambi i casi apprendiamo, e per questo le esperienze diventano significative, grazie al contatto con qualcosa che “attiva” emozioni, pensieri, idee, intuizioni, speranze. Dilatare l’esperienza, o meglio la percezione dell’esperienza, permette infatti un chiarirsi idee e pensieri, una distinzione tra cosa è importante e centrale e cosa non lo è, e, soprattutto, finisce con il condurre qualunque individuo verso scelte che avverte come intimamente personali.

Dilatare emotivamente l’esperienza, in altre parole, implica la possibilità di stare a contatto con sé stessi. Ciò è quanto accade in una buona analisi, ed è forse giusto sottolineare come questo di per sé sia già un risultato di rilievo. Lo è ancor di più se si pensa alla velocità della nostra post-modernità. Tante volte le persone si rendono del nostro incredibile correre quando muore una persona cara. Tutti, chi più chi meno, iniziamo a chiederci il perché del nostro agire, dei nostri mille impegni, e via discorrendo. Improvvisamente mettiamo a fuoco di avere avuto poco tempo per gli aspetti della vita realmente importanti; improvvisamente capiamo sia che a dettare i ritmi sono le nostre macchine e la nostra tecnologia, sia che seguendo il loro ritmo abbiamo perso un po’ del nostro ritmo umano.

Le immagini interiori, se viste, se ascoltate con il cuore, possono riportarci ad un ritmo più naturale, perché il loro tentativo è in ultima istanza quello di rimettere l’uomo, nel senso non narcisistico del termine, al centro della sua attenzione, distogliendolo dal flusso di stimoli in cui è, siamo, immersi. E tutto ciò ci aiuta a capire sia come la lentezza, se intesa nel giusto modo, possa essere un mezzo per tornare ad un ritmo meno robotico, sia come le immagini interiori, rispetto ad un recupero di umanità, possano avere un valore difficilmente descrivibile a parole.

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