Scrittura e Psicoterapia

Scrittura e PsicoterapiaCon l’avvento e la progressiva diffusione dei social network, di chat telefoniche, e di altre tecniche di comunicazione basate sulla brevità e sull’immediatezza, si è spesso temuto che la scrittura, un’attività lenta che inevitabilmente richiede tempo e pazienza, potesse scomparire. In realtà, come dimostrano il costante fiorire di corsi di scrittura, il crescente numero di libri di anno in anno pubblicati, la paventata scomparsa della scrittura non c’è stata. E’ interessante, in primo luogo, chiedersi come mai ciò non sia avvenuto.

Secondo Stefano Ferrari, il quale ha approfondito l’argomento nel suo libro “Scrittura come riparazione-Saggio su letteratura e psicoanalisi”, la scrittura soddisfa un paio di scopi: un piacere per così dire motorio, collegato ad un gesto di precisione; e la riparazione, per usare un termine dello stesso Ferrari, di affetti spiacevoli connessi a determinati contenuti psichici. Il piacere motorio legato alla scrittura è quel tipo di piacere che si riscontra in tutte quelle attività che richiedono un’abilità manuale fine, sempre uguale a se stessa, ma in cui è possibile rintracciare il proprio stile, il proprio segno inconfondibile. Ogni scrittura ha, se osservata da vicino, una sua particolare geometria, di cui lo scrittore è egli stesso artefice e il “creare” un qualcosa è di per se un piacere. Per Pirandello, per esempio, nella scrittura è connaturato il piacere del dare “forma” a qualcosa. In questo breve articolo, tuttavia, non vogliamo soffermarci troppo su questo genere di piacere insito nell’atto dello scrivere, preferiamo focalizzare  la nostra attenzione sul modo in cui la scrittura può facilitare la “digestione” di affetti spiacevoli e sul come di conseguenza può essere utilizzata a livello terapeutico.

Per capire come la scrittura può aiutare da un punto di vista emotivo, bisogna osservarne le caratteristiche essenziali: ciò che è scritto rimane ed è correggibile. Ciò sottintende che ci si può misurare più volte con lo stesso scritto, anche a distanza di tempo e in condizioni psicologiche diverse, e ciò implica che quanto si rilegge può assumere di volta in volta un valore diverso, per così dire quello che noi stessi abbiamo scritto ci “parla” in maniera diversa al punto che possiamo aggiungere o togliere delle parti al nostro prodotto. A tal proposito James Hillman, nel suo saggio su “Il Potere”, afferma: “Il linguaggio può esprimere ogni sfumatura emotiva, ed è proprio questa la sua bellezza e il suo potere. Private del senso delle parole, le nostre espressioni emotive diventano primitive, fisiche e grossolane.” Se adesso pensiamo per un attimo agli affetti e alle emozioni, possiamo osservare come un affetto di dolore, angoscia, tristezza, sia numerose volte un qualcosa di simile ad un agglomerato inarticolato che trova più spesso espressione psicologica attraverso i sintomi tipici dell’ansia e della depressione, anziché attraverso una modalità  verbale chiara e consapevole. E proprio in ciò, da una prospettiva psicologica, troviamo parte dell’utilità terapeutica della scrittura. Infatti, nel momento in cui ci si siede dinanzi ad un foglio bianco per scrivere di un proprio stato interno inizia un’opera di sezionamento e di parcellizzazione dello stesso. Lo scrivere “impone” di avvicinarsi il più possibile alla sfumatura e alla tonalità giusta per descrivere la propria esperienza, ed proprio in virtù di ciò possiamo dire che la scrittura facilita nel precisare e nel definire i propri pensieri e i vissuti emotivi collegati agli stessi pensieri. Già questo opera di definizione del proprio pensiero e vissuto ha un potere contenitivo rispetto ad un affetto spiacevole, perché quest’ultimo non viene più semplicemente subito ma può essere pensato e depotenziato nella sua carica negativaScrivere, inoltre, produce un ordine derivante dallo sviluppare una tesi, un’argomentazione, dal mettere in sequenza un prima e un dopo, dal collegare in maniera diversa avvenimenti. Lo scrivere termina nel momento in cui un testo è riuscito dopo la scomposizione iniziale di un qualcosa, nel nostro caso un affetto, a ricomporre il puzzle in modo che il tutto garantisca un equilibrio finale inizialmente assente. Per chiarire meglio questo aspetto della scrittura, lasciamo la parola ad uno scrittore del calibro di Barthes: “La scrittura si dipana come un filo più o meno largo, più o meno compatto: è un nastro grafico. Questo nastro esprime lo statuto fondamentalmente narrativo della scrittura. E che cosa è il racconto? Nel modo più elementare è un susseguirsi di un prima e di un poi, un misto inestricabile di temporalità e causalità.” In altre parole, la scrittura consente la narrazione e ciò è notoriamente terapeutico perché contiene un senso, una spiegazione, un significato che permette di comprendere in maniera più compiuta un fenomeno che aveva prodotto disorientamento e mancanza di equilibrio.

Se la narrazione è terapeutica, e non a caso un buon percorso psicologico riesce tra le altre cose a realizzare un racconto di se stessi percepito come dotato di senso, viene spontaneo chiedersi in che modo la pratica dello scrivere può inserirsi in un contesto terapeutico. L’atto dello scrivere può sostituire un percorso psicologico, o in qualche modo può affiancarlo? In questo articolo, propendiamo per questa seconda ipotesi, perché se è vero che il narrarsi in seduta e lo scrivere producono entrambi narrazione, è anche vero che lo fanno in una maniera diversa e che è utile integrare. Naturalmente anche la narrazione terapeutica ritrova un prima e un dopo, seziona eventi, permette una comprensione, non diversamente da quanto accade con lo scrivere, ma è dotata di una particolarità che manca nella narrazione scritta: il tutto avviene con un esperto, con una persona che può aiutare nel cogliere un particolare non considerato, ma soprattutto nella narrazione “a due” si ha la possibilità di essere “visti” emotivamente da un altro individuo. Un’esperienza unica di condivisione che è assente nella narrazione scritta, perché la narrazione terapeutica è un comprendere insieme, un elaborare insieme. L’essere riconosciuti, caratteristico della situazione terapeutica, consolida quel sentire la propria specifica individualità, rafforza la propria identità perché quest’ultima è stata riconosciuta, accettata profondamente e rispettata, da qualcun altro. E ciò ha un valore insostituibile. Le due forme di narrazione possono però arricchirsi a vicenda: l’ordine raggiunto in uno scritto può essere letto in seduta e stimolare nuove riflessioni, così come le sedute possono stimolare la voglia di ampliare la propria comprensione, raggiunta anche con la pratica dello scrivere. In altre parole, tra i due momenti narrativi, l’orale e lo scritto, può innescarsi in ambito terapeutico un rapporto di circolarità positivo.

Anche perché la scrittura, a ben vedere, non può essere ridotta, per quanto ciò sia importantissimo, soltanto ad un’attività che produce un ordine. La scrittura spesso tira fuori qualcosa di nuovo, di sconosciuto, da espressione ad un qualcosa che sta sgorgando per la prima volta da una persona. E’ un atto creativo e non solo riparativo. Parole giuste, parole sentite, parole che toccano, parole che penetrano, e qui torniamo alla possibile circolarità positiva tra scrittura e psicoterapia, spesso “attivano” immagini nella psiche. E le immagini curano perché forniscono una rappresentazione, rendono visibile un qualcosa di non afferrabile. Le parole scritte possono “costellare” immagini e così favorire un processo di elaborazione psichica. Per cogliere meglio il rapporto tra parola scritta e immagini, mi sia consentita una breve divagazione cinematografica. Il capolavoro di Kubrick “Arancia Meccanica” riprende la trama del dall’ omonimo capolavoro letterario di Anthony Burgess. Tra libro e film, distanziati di dieci anni, c’è anche qualche differenza. Nel libro Burgess utilizza un linguaggio, il Nasdat, un mix giovanile tra inglese e russo, da egli inventato, che rende, Alex, giovane quindicenne violento e amante di Beethoven, quasi giocoso e che facilitano nel lettore l’identificazione con il personaggio. Nel film tale linguaggio è raro, Alex è un 28enne, molto più cupo e suoi atti, perpetrati con gli altri drughi, suscitano sgomento, paura, terrore. Kubrick lo immagina con un boa, particolare assente nel testo scritto. Può sembrare un dettaglio insignificante, in realtà l’immagine cinematografica di Alex permette di distanziarsi dalla violenza, e di elaborare le pulsioni più aggressive presenti in ognuno di noi. L’immagine di Alex costituisce uno specchio in cui ognuno può riconoscere qualcosa in sé, e pertanto allontanarsene. In una lettera del 13 febbraio 1972 al Los Angeles Times Anthony Burgess ha affermato: “Sono riuscito a guardare il film come una totale ricostruzione del mio romanzo, e non come una semplice interpretazione; non è azzardato affermare che si tratta dell’Arancia meccanica di Stanley Kubrick, e questo è il più grande omaggio che io possa rendere alla maestria del regista”, aggiungendo che il film  è “in tutto e per tutto un film di Kubrick, tecnicamente brillante, arguto, puntuale, poetico, capace di schiudere allo spirito nuove prospettive.” Non a caso lo stesso Burgess, in seguito al film di Kubrick, ha avvertito l’esigenza di tornare sul tema violenza con un nuovo scritto, “A Clockwork Condition” (“La Condizione a Orologeria”), che purtroppo non è riuscito a terminare prima della sua morte, il quale costituisce la continuazione ideale di “Arancia Meccanica” e che Burgess stesso avrebbe considerato non un’opera di narrativa, [1] bensì una riflessione “in parte filosofica in parte autobiografica”.

Tornando, per concludere, sul nostro discorso sul rapporto tra scrittura e psicoterapia, possiamo notare come le “nuove prospettive” di cui parlava Burgess facciano ben capire la circolarità tra parole e immagini, circolarità che a sua volta ci permette di intuire agevolmente il ruolo che la scrittura può giocare in un più ampio percorso terapeutico.

[1] Il materiale per questo nuovo manoscritto è stato trovato nella sua villa presso il lago di Bracciano, 200 pagine circa dattiloscritte che non hanno trovato una sistemazione definitiva.

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