Immagine e Cinema

Immagine e CinemaUn film può essere considerato un complesso prodotto artistico generato da suoni, musiche, parole e immagini. Senza questo intreccio di fattori un film oggigiorno non riusciremmo neanche a considerarlo tale, tuttavia indubbiamente le immagini ne costituiscono la materia prima. Basti semplicemente pensare che il cinema è stato muto dal 1895, anno della prima proiezione in sala dei fratelli Lumière, fino al 1927, anno in cui uscì “Il Cantante di Jazz” ritenuto il primo film sonoro. Alcuni capolavori assoluti della storia del cinema, quali i film di Stanley Kubrick “Arancia Meccanica” o “Odissea 2001 Nello Spazio”, sono film che contengono pochissimi dialoghi e che lasciano che siano le immagini a “parlare”, ad evocare, a trascinare, lo spettatore dentro il film.

Per comprendere la potenza delle immagini all’interno di un film, non possiamo non parlare del ruolo più generale giocato dall’immagine all’interno della vita psichica. E per farlo conviene tornare a pensare alla condizione di ogni neonato che viene al mondo investito da potenti emozioni, quali fame, sete, freddo, caldo, piacere, dispiacere, che non possono tuttavia essere espresse ed elaborate verbalmente perché non dispone di un linguaggio strutturato che gli permetta di farlo. Come organizza allora il bambino la sua esperienza e le sue emozioni se non dispone della parola? Attraverso le immagini. Inizia a formarsi un’immagine della mamma, una del papà, una dello spazio, una degli oggetti, e via dicendo. Ed associa, per esempio, l’immagine della madre alla possibilità di ricevere cibo e calore, cioè al poter dare una risposta alle sue sensazioni di fame e freddo. In altre parole, le immagini, le rappresentazioni mentali, lo guidano nel senso che gli consentono di organizzare la sua esperienza emotiva.

Tale primato emotivo dell’immagine rimarrà per tutta la vita, anche da adulti quando si disporrà anche di un altro strumento fondamentale per l’organizzazione della propria esperienza quale il linguaggio. L’immagine conserva il suo primato, il suo precedere, perché ha quella capacità di dare una forma, forse anche sfumata, a ciò che percepiamo a malapena, a ciò che non riusciamo ad ascoltare di noi stessi, a ciò che non riusciamo a tirar fuori e ad esprimere in altro modo perché ne siamo di fatto poco consapevoli. Le immagini per via di questa loro capacità rappresentativa possono essere considerate le prime trasformatrici dell’esperienza psichica, capaci poi di facilitare il linguaggio nel trovare le giuste parole per esprimere dei contenuti emotivi per così dire grezzi. Ma le parole vengono appunto solo in un secondo momento. Potremmo aggiungere, e dilungarci su ciò, che parole sentite a loro a volta facilitano l’emergere di nuove immagini in un circolo che si auto alimenta, ma in questo breve articolo preme sottolineare la funzione primaria dell’immagine. Nella sua autobiografia, “Ricordi, Sogni, Riflessioni”, Jung scrive: “Finché riuscivo a tradurre le emozioni in immagini, e cioè a trovare le immagini che in esse si nascondevano, mi sentivo interiormente calmo e rilassato. Se mi fossi fermato alle emozioni, allora forse sarei stato distrutto dai contenuti dell’inconscio” (Jung, 1961, pag. 219).

Detto tutto ciò, e considerato come un film sia una sequenza di immagini, capiamo facilmente come il cinema svolga una funzione emotiva. Possiamo piangere durante la visione di un film, rivedere noi stessi in alcuni personaggi, provare rabbia e aggressività per altri. Un film ci offre delle immagini che hanno una risonanza affettiva in noi, agisce come una cassa di risonanza emotiva. Se pensiamo a qualche film significativo della nostra vita, potremmo notare come tale film sia riuscito a toccarci e a facilitare l’emergere di nostre immagini personali rispetto ad una determinata questione. Un film personalmente significativo offre una prospettiva su una questione soggettivamente pregna di significato emotivo, e tale visione sollecita la nostra prospettiva immaginale. Il tutto, però, in un contesto protetto. Ne “Il problema Psichico dell’uomo Moderno”, Jung scrive che il “cinematografo…permette di vivere senza pericolo le emozioni, le passioni e le fantasie, destinate, in un’epoca umanitaristica, a dover soccombere alle rimozione” (Jung, Opere Vol. X, pag. 3). In altre parole, il cinema funge da medium perché permette di avvicinarsi a del materiale psicologicamente caldo” con prudenza. Molte volte in ambito terapeutico capita di suggerire un film che in qualche modo rievoca un nucleo psichico delicato per la persona in terapia. E spesso l’effetto è sorprendente. Per esempio, ad un mio paziente giovane adulto con del talento, ma tutto sommato spaventato dalla vita, ho raccomandato la visione di “Will Hunting – Genio Ribelle”. Riconoscendo la paura di amare e più in generale di vivere del geniale matematico, incarnato da Matt Damon, ha riconosciuto la propria paura di vivere ed ha trovato delle immagini personali che riuscissero a rappresentare il suo modo di eludere l’esistenza. Il film ha dato il via a questo processo, perché un buon film ha la capacità di abbracciare. Mostra un limite di un personaggio, una fragilità se si vuole, ma con umanità, con affetto, con empatia, e non oscurandone gli aspetti positivi. Ed è proprio questa descrizione empatica e profonda di un personaggio che ha permesso al paziente in questione di avvicinarsi alla stessa tematica presente in egli stesso, e che più in generale permette allo spettatore di lasciarsi andare, di lasciar risuonare dentro di sé quella vicenda così simile alla propria. Un lasciare fluire e decantare dentro di sé delle vicende emotive che possono attivare la propria funzione immaginativa. Da questa angolazione, possiamo dire che il cinema contribuisce ad affinare quello sguardo interiore su cui si è soffermato tanto Jacques Derridà.

Questa capacità del cinema di fungere da medium per l’emersione di contenuti psicologici, è particolarmente evidente in quei film che ci avvicinano alle nostre pulsioni più oscure. “Secretary” di Steven Shainberg ne è un piccolo esempio. Nel film la giovane Lee, Maggie Gyllenhaal, poco dopo essere uscita da una clinica psichiatrica inizia a lavorare come segretaria in uno studio legale. In poco tempo diviene “catturata” dalla figura autoritaria del proprio capo, James Spader, e nel momento in cui la loro relazione diventa intima si tinge subito di forti venature sadomasochiste. In maniera per alcuni versi sorprendente, tale relazione aiuta entrambi a divenire personalità più solide e sicure al punto che finiscono con lo sposarsi. Ebbene, molte persone in seguito alla visione del film hanno riferito di aver provato una certa eccitazione durante la proiezione dello stesso, e ciò ha “attivato” non tanto i loro aspetti sadomasochisti quanto il desiderio più generico di una sessualità più spinta. Con un linguaggio maggiormente psicologico, potremmo dire che il cinema media rispetto ai nostri lati d’Ombra.

Per quanto sia vero che le immagini cinematografiche permettano di avvicinarsi al lato meno nobile dell’essere umano, si pensi a tal proposito a quei film quali per esempio “Schindeler list” o “Il Pianista” che ci aiutano a dare una rappresentazione ad una tragedia indicibile, limitare la loro funzione psicologica a ciò sarebbe comunque riduttivo. Il cinema, almeno in alcuni frangenti, riesce a svolgere un’azione di mediazione psicologica per così dire più generale. Per argomentare meglio ciò, è necessaria una breve digressione sul più generale valore di un’opera d’arte. La psicoanalisi si è spesso interrogata sul rapporto tra l’opera d’arte e la biografia del suo autore, e utilizzando le parole di Jung è giunta alla conclusione che “la psicologia personale dell’artista fornisce non pochi chiarimenti sulla sua opera, ma non la spiega” (Jung, Vol. X, pag. 360). Sarebbe assolutamente riduttivo, per esempio, spiegare il Mito della Caverna di Platone rimandando il tutto al rapporto del filosofo con la propria madre per la semplice ragione che la caverna può in qualche modo rinviare all’utero materno. Interpretando l’opera d’arte in termini strettamente biografici, argomenta Jung, rischieremmo di non cogliere il senso dell’opera. Conviene accostarsi all’opera d’arte intendendola psicologicamente al pari di un complesso autonomo, di un impulso creativo che cresce da sé dentro la persona. Un qualcosa di cui l’artista è al servizio e che sente l’esigenza impellente di tirare fuori. Commentando Zarathustra, Nietzsche stesso ha affermato che la sua personalità era in qualche modo “sdoppiata”. Tale autonomia dell’opera d’arte possiamo riscontrarla anche in ambito cinematografico. Bernardo Bertolucci, in un’intervista rilasciata alla psicoanalista Barbara Massimilla, ha detto testualmente: “La camera diventa uno dei personaggi all’interno della storia. Mentre filmo posso elaborare l’inquadratura e spostare il fuoco su qualcosa di nuovo, qualcosa che non era previsto ed improvvisamente mi attrae…L’imprevisto, quello che io chiamo la porta aperta di Jean Renoir. Sono lì per catturarlo, sono io la camera e lei cammina con le mie gambe” (Rivista di Psicologia Analitica, Vol. 96/2017, pag. 179). Nel momento in cui un’opera d’arte é così autonoma, e così visionaria, non di rado coglie una tematica collettiva dello spirito del tempo in cui si vive. Così come Nietzsche annunciando la morte di Dio anticipa un problema contemporaneo, cioè un bisogno psicologico di spiritualità che in molte persone non riesce più a trovare soluzione nelle religioni ufficiali; altre opere dicono qualcosa di ampio e collettivo sulla nostra attualità. L’arte in genere, come ha mostrato con dovizia storica lo studioso di arte Hans Sedlmayr (1948) tramite un affascinante viaggio nelle immagine sgorgate da Goya, Friedrich, Daumier, Grandville e Cézanne, costituisce uno specchio in cui l’uomo può vedere diversamente se stesso e la società in cui vive. E naturalmente ciò vale anche per il cinema, considerato in genere la settima [1] arte per via della sua recente apparizione.

Lo spirito del tempo lo ritroviamo in molti film contemporanei che in qualche modo toccano il rapporto tra l’uomo e la tecnica, e la nostra post-modernità. Prendiamo ad esempio “Blade Runner” di Ridley Scott del 1982. In una grigia e senza sole Los Angeles del 2019, gli essere umani hanno inventato dei replicanti da utilizzare come schiavi nell’extra – mondo. Il dottor Tyrell (Joe Turkel), a capo dell’omonima corporation, è riuscito inventare dei replicanti “Nexus 6” che sono “più umani degli umani”, solo con più intelligenza e più forza. Per evitare che superino il loro stesso creatore, il dottor Tyrell decide di programmarli per una vita di soli 4 anni. Consapevoli della brevità della loro esistenza, un gruppetto di questi replicanti dirottano una nave per riportarla sulla terra per chiedere una vita più lunga. Il dottor Tyrell per impedire che ciò avvenga si rivolge ai Blade Runner, squadre speciali di polizia, il cui principale esponente Deckard (Harrison Ford) si trova costretto ad accettare l’incarico di eliminare i replicanti. Di qui il film inizia a mostrare tutta la sua paradossalità: i replicanti sono più umani e con più sentimenti degli essere umani. Sono forti, talvolta onnipotenti nella loro forza, ma il tutto assume un sapore adolescenziale. Superano dei limiti, come nella scena in cui Leon mette una mano in un liquido congelante e la toglie illesa senza riportare danni, ma senza avere mire specifiche di onnipotenza e senza malvagità. Se solo potessero avere più tempo, maturerebbero nelle loro emozioni grezze. Gli umani, invece, sembra che abbiano stretto un patto faustiano con il denaro. Il dottor Tyrell per esempio dice a Deckard con orgoglio: “Il commercio è il nostro obiettivo qui alla Tyrell…Rachael è un esperimento, niente di più.” Quanta freddezza! Ma quanta assenza di qualunque affetto anche negli umani Golden, Bryant, Chew e Sebastian. Anche prima di morire Tyrell è impegnato in affari borsistici, mentre la replicante Rachael (Sean Young), riuscendo ad innestarsi empaticamente sulle memorie che le hanno trapiantato, prima salva e poi si innamora di Deckard. Una coscienza decisamente più attenta e riflessiva rispetto agli umani la troviamo in Roy (Rutger Hauer), il quale da replicante, oltre a salvare anch’egli la vita a Deckard, mostra uno spessore umano considerevole sia per via della sua familiarità con la sofferenza, sia per la consapevolezza della brevità della sua esistenza che lo porta ad interrogarsi sul senso stesso della vita.

Alla fine l’umano Deckard, riscoprendo di avere dei sentimenti [2] e riconoscendo il suo amore per Rachael, ritrova la sua profondità umana.

Si potrà obiettare: “E’ solo un film di fantascienza, cosa c’entra tutto ciò con noi? In che modo può riguardarci?” Se pensiamo ad alcuni nostri progressi tecnologici, possiamo vedere come la paradossalità di Blade Runner agisca come uno specchio che non possiamo trascurare. Noi non abbiamo ancora costruito dei replicanti, ma l’ingegneria genetica sta facendo dei passi da gigante e sarà in grado nei prossimi anni di rendere la vita ancora più lunga. Potremmo allora osservare come spesso cerchiamo di allungare con l’ausilio della tecnica la vita in tutti i modi, ma poi le persone anziane, comunque bisognose, le lasciamo spesso in una condizione di solitudine. Potremmo anche notare come disponiamo di una tecnologia che ci permette di sbrigare rapidamente questioni lavorative [3], ma finiamo spesso con il non avere tempo libero da dedicare a noi stessi e a chi ci è vicino. Disponiamo di tanta tecnica, ma è al servizio della nostra umanità o di qualche pulsione che ci anima? Non è affatto possibile fornire una risposta univoca a ciò, e non neanche che questo breve articolo la sede idonea per tentare un eventuale approfondimento sulla questione, però, in questo contesto, preme sottolineare come un film come Blade Runner possa mostrarci un pochino ciò agendo di fatto come uno specchio riflessivo che apre porte per ognuno di noi.

In tal modo un film proiettato sullo schermo diventa uno specchio simbolico, cioè un insieme di immagini che tentano di esprimere un qualcosa che non riusciamo a formulare diversamente, che permette al cinema di svolgere, al pari delle altre arti, una funzione sociale.

[1] Il cinema fu definito “settima arte” dal poeta e critico cinematografico Ricciotto Canudo nel 1921. L’architettura, la musica, la pittura, la scultura, la poesia e la danza sono ritenute le altre sei arti.

[2] Emblematica da questo punto di vista la scena in cui Deckard, come se si stesse risvegliando da  un lungo torpore affettivo, afferma: “Non era previsto che i replicanti avessero sentimenti, neanche i cacciatori di replicanti. Che diavolo mi sta succedendo?”.

[3] Si pensi banalmente a come possiamo fare un bonifico senza recarci in banca, utilizzare la pec senza recarsi all’ufficio postale, al come si possa partecipare ad una riunione lavorativa rimanendo a casa, e via dicendo.

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