Dolore Esistenziale e Male

Dolore Esistenziale e MaleTalvolta arrivano a consultazione analitica persone che hanno affrontato un’enorme battaglia esistenziale, finita per molti versi positivamente, che nonostante il buon esito pare aver debilitato e segnato l’anima delle persone stesse. Per esempio un infermiere che ha dovuto e voluto lavorare 12 ore al giorno durante la prima ondata Covid, oppure una persona che ha avuto un tumore classificato con un livello 4 che è stato debellato.

Situazioni drammatiche che non ci saranno più: in un caso perché come paese siamo molto più preparati ad affrontare il Covid, nell’altro perché comunque il tumore non arriverà più come una bruttissima notizia che piomba sulla testa da un giorno all’altro. Eppure, a dispetto del fatto che le notizie attuali siano certamente più positive di quelle passate, queste persone sono stanche, sfinite, esauste. Con dolore, ma con parole che non esagerano il loro vissuto, dicono: “Se dovessi avere una ricaduta tumorale non farò più cure..”, oppure “Facendo l’infermiere ne ho viste tante, ma adesso non posso vedere un solo morto in più…devo diventare un amministrativo o cambiare lavoro.” E’ come se queste persone, con mille validissime argomentazioni, dicessero che non possono fare 1 metro in più, come se non potessero permettersi di fare un solo passo in più sulla strada percorsa fino ad ora. Vorrebbero solo fermarsi, avere l’opportunità di sedersi perché è come se si trascinassero dietro un peso enorme.

Proviamo a capire perché è così, perché, come già accennavamo poc’anzi, in fin dei conti queste persone hanno compiuto grandi imprese con coraggio, determinazione, forza di volontà, eppure adesso non c’è quella gioia, o quantomeno quella serenità, che ci si potrebbe attendere dall’aver messo in atto qualcosa di eroico. E’ come se queste persone avessero realizzato qualcosa di grandioso, ma non avessero riportato indietro nessun tesoro. Detto con un linguaggio maggiormente psicologico, è come se certe battaglie non fossero diventate né parte del proprio patrimonio psichico, né avessero alimentato un senso di sicurezza interiore, anzi è come se finissero con il lasciare dentro di sé una paralizzante paura che tutto possa ripetersi.

Perché, perché è così? Possiamo affrontare tale spinosa e delicata questione immaginando una risposta articolata su un paio di livelli. Ad un primo livello va notato come durante quelle tremende lotte esistenziali la persona era comprensibilmente incline a ricercare dentro di sé un atteggiamento ottimista, a lottare a testa bassa, ad essere impegnata con tutte le sue energie per tentare di sopravvivere, a ripetersi e a sentirsi ripetere parole che in questi anni sono diventate un mantra come “Andrà Tutto Bene”. In altre parole per sopravvivere a quanto le stava capitando, la persona coinvolta, che con ogni probabilità non aveva alternativa alcuna, doveva rimuovere-reprimere-allontanare la paura e il terrore per tutto questo improvviso marasma piovuto addosso da chissà dove. E ciò che viene rimosso prima o poi ritorna, spesso anche in una forma per alcuni versi ingigantita. Non diversamente da come succede con la nostalgia, che in automatico porta ad idealizzare ricordi del passato anche a prescindere da come fosse vissuto il presente di quel periodo, così anche un ricordo spiacevole con il trascorrere del tempo rischia di essere ancora più fosco.

Ad un secondo livello, e ciò è complementare al primo, quando questa angoscia, questo terrore rimosso, torna a galla assume i contorni di un’esperienza poco digeribile psicologicamente. Perché queste esperienze limite, a ben guardare, “obbligano” a vedere un male per alcuni versi incomprensibile e per questo traumatico. Tornando alle situazioni citate a mò di esempio, non solo in entrambe si affaccia l’ombra lunga della morte, ma in aggiunta a ciò possiamo notare come essa lo faccia con una modalità così fulminea e violenta da risultare di per sè inevitabilmente traumatica.  Se ci caliamo nei panni di una una donna nel fiorire dei suoi anni che di punto in bianco si ritrova con un aggressivo tumore al seno che va a colpire proprio alcuni aspetti del suo essere donna, oppure se immaginiamo il nostro infermiere in prima linea davanti ad un virus in grado di far “esplodere” gli ospedali al punto che è stato costretto, insieme a tutti i suoi colleghi, a trattare i malati e i defunti privandoli della loro dignità [1], intuiamo come tali vicende costituiscano un male perforante. Un male che fa davvero male perché la sua vista non è tollerabile. Vederlo di colpo, perché il ritorno del rimosso “costringe” a ciò, espone di conseguenza alla possibilità di svuotarsi, di deprimersi, di atterrirsi, perché alcuni dolori lasciano interdetti e senza parole.

Queste persone si trovano in una situazione psichica analoga a quella di quei viaggiatori ed eroi greci che trovandosi viso a viso con Medusa ne rimanevano pietrificati. Medusa è fonte di insegnamento psicologico: dopo essere stata violentata da Poseidone vicino un tempio di Atena, quest’ultima la trasforma nella Medusa pietrificante che arresta la vita, il suo fluire, inchiodandola ad un evento tragico. E un’esperienza legata al Male fa proprio ciò. Un dolore, una violenza, fa incappare nel rischio di rendere la personalità indurita, inaridita, svuotata, spenta. Così a livello terapeutico è necessario misurarsi con il problema di come vedere il Male che c’è stato. In precedenza il Male non poteva essere visto per sopravvivere, adesso una qualche area della psiche ha rotto gli argini della rimozione e pone brutalmente dinanzi a qualcosa che può sopraffare. Getta dinanzi a qualcosa che non può più essere solo rimosso e allontanato da sé, reclamando così la necessità di provare ad elaborare diversamente quello che è stato.

Cosa fare? Non diversamente da Perseo che sconfigge Medusa vedendola attraverso uno specchio e non direttamente, forse anche noi in ambito terapeutico abbiamo bisogno di un medium psichico che permetta alla persona interessata di “strutturare” uno specchio interno utile a vedere e reggere l’urto del male. Nel Libro Rosso Carl Gustav Jung pare suggerire l’idea che il problema non è tanto andare all’inferno, quanto quello di trovare il modo, attraverso parole e immagini, per tradurre l’esperienza infernale in un’esperienza umana. “Amore è portare e sopportare sé stessi”, scrive (Libro Rosso, pag. 364). Questo sopportare sé stessi, o meglio i propri stati d’animo dinanzi al male, è il primo passo verso la trasformazione dell’esperienza. Un non perdere mai solidarietà, un’accoglienza, verso di sé perché il Male, vedere il Male, tira fuori il nostro male. Il Male rende “paranoici”, fa interrogare su un senso che non si trova, incattivisce, ha il potere di mutare il nostro sguardo rendendolo pessimista e disincantato. Per usare ancora le parole di Jung, “la vista del male ridesta il male nella propria anima” (In Opere Vol. 10° II, pag. 218). Il Male ha infatti, come la storia generale dell’uomo mostra in abbondanza, la forza intrinseca di “risvegliare” un male che può essere connaturato in ogni essere umano e proprio in virtù di ciò in grado di esercitare il suo effetto nefasto.

Tale Male così pervasivo e potente richiede paradossalmente di non perdere, in questo senso può essere intesa l’affermazione di Jung relativa al sopportare sé stessi, mai la propria bontà, perché tale bontà può costituire il medium necessario per dotarsi a sufficienza di quello specchio interno tanto importante per prepararsi a vedere l’inguardabile senza esserne sopraffatti.

Il filtro della bontà verso noi stessi, questa preziosa luce da conservare, permette al Male di essere immaginato perché non perdendo questo calore interiore evitiamo che esperienze estremamente dolorose ci travolgano. Quest’opera di resistenza, questo non venir travolti dal Male, con lentezza trasforma il Male in qualcosa di più accettabile e che fa parte delle possibili esperienze dell’uomo. Il Male, detto con altre parole, diviene parte della nostra visione del mondo, ma questo non annichilisce più perché il resistergli, il non rimanerne bruciati e/o pietrificati, rende più saggi e forse per questo più pienamente umani.

[1] Alcuni pazienti hanno raccontato di aver dovuto mettere dei cadaveri nei sacchi della spazzatura e adesso tali immagini è come se li perseguitassero perché costantemente tendono a ripresentarsi ai loro occhi.

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