Anoressia e Riserva Mentale

Anoressia e riserva mentaleIl comportamento anoressico è così inquietante, così perturbante, da lasciare in genere assolutamente sgomenti. Esso appare un qualcosa di altro, di alieno, di estraneo: decidere volontariamente di non mangiare, espellere quel poco che si è inghiottito, consumarsi talvolta fino a morirne, appare per molti versi incomprensibile sia alla persona direttamente interessata, sia a chi le è vicino. Tale incomprensibilità dell’anoressia ha contribuito a far sì che vari studiosi e analisti, trovatisi a contatto con tale difficile e delicata condizione psichica, formulassero ipotesi psicologiche di volta in volta nuove e originali per provare a comprendere quanto da loro stessi osservato.

Sfogliando e leggendo le ricerche sull’anoressia, si potrà così osservare come alcuni studiosi, quali per esempio  Selvini-Palazzoli e Minuchin, abbiano concentrato la loro attenzione sul sistema familiare nel suo complesso; come altri si siano soffermati, per esempio Hilde Bruch, sulla relazione primaria madre-figlia; come altri ancora, Kohut e Winnicott su tutti, abbiano riflettuto sulla funzione difensiva implicita nella condotta anoressica; ed altri ancora, in particolare gli studiosi di area junghiana, con Neumann-Woodman-Valcarenghi, sul significato intrapsichico dell’anoressia. Ognuno ha di conseguenza visto qualcosa di diverso nell’anoressia: gli studi familiari hanno o rimarcato la perifericità del padre nel sistema familiare o il fatto che molte famiglie con una persona anoressica siano in qualche modo poco propense a far crescere i figli, sarebbe a dire entrambi fattori che hanno contribuito alla scelta inconscia anoressica di un membro della famiglia come modo per non emanciparsi dal nucleo di origine o per richiamare l’attenzione paterna; le osservazioni più relazionali hanno evidenziato come non di rado il genitore della persona anoressica viva il figlio/a come un’estensione di sé e non come una persona dotata di una sua soggettività con il risultato di non aiutare il/la figlio/a a percepirsi soggetto; le ricerche che hanno colto l’aspetto difensivo dell’anoressia hanno sottolineato come essa “tuteli” o da un senso di frammentazione personale o da un vuoto, e quindi, per alcuni versi paradossalmente, da un disagio psichico ancora maggiore; ed infine la clinica junghiana, che ha preferito concentrare la sua attenzione sul funzionamento interno del paziente anoressico anziché su fattori esterni, ha mostrato come spesso la condotta anoressica sia al servizio di una sottile e raffinata auto-aggressività.

In apparenza una babele di lingue, in realtà ogni teoria pare aver colto frammenti di verità sull’anoressia che di solito, a livello clinico, si rivelano di grande aiuto perché permettono di afferrare qualcosa di più di una condizione psicologica altrimenti di difficile lettura e interpretazione. In ogni caso, tutte le teorie sono accomunate da una circostanza specifica: a prescindere da quale possa essere la causa originaria, se nella famiglia-nelle relazioni primarie- o in altro, l’anoressia conduce sempre ad una radicale negazione del corpo. Per esempio, non si può crescere per evitare rotture in un sistema familiare immobile? E’ necessario rimanere in un corpo non da adulto/a. Oppure, il vuoto esistenziale terrorizza? Lo si può combattere ricercando un vuoto alimentare tutti i giorni, allenandosi per mezzo dell’anoressia a controllare un vuoto più generale che spaventa moltissimo. Oppure ancora, la persona anoressica cerca e desidera un modo per sentirsi speciale? Lo fa digiunando, un qualcosa di impossibile per gli altri e che paradossalmente la eleva. Naturalmente questi non sono che due-tre esempi di un elenco assolutamente incompleto di modi per negare il corpo, vengono però qui citati per dare un’idea di come l’anoressia sia sempre legata a questa radicale negazione del corpo.

Messo a fuoco questo tratto centrale dell’anoressia, questa negazione del soma, possiamo spostare il nostro discorso su un altro livello. Come si diceva all’inizio l’anoressia ha qualcosa di sconcertante, e ciò che ha il potere di sconcertare a livello psicologico – insegna Jung – richiama il tema dell’Ombra. Ovvero, in estrema sintesi, rievoca il lato opposto, nascosto, sconosciuto, presente in ogni essere umano. Nel pensiero junghiano l’Ombra non necessariamente ricopre un ruolo negativo, anzi non di rado, se integrata, contribuisce ad arricchire l’esistenza del singolo, ma se non viene vista e valutata a livello cosciente – ammonisce lo stesso Jung – può aprire la strada ai peggiori disastri psichici.

E allora, tornando sulla condizione anoressica, una domanda nasce spontanea: quale potrebbe essere una parte di Ombra non vista nell’anoressia? Per rispondere a tale domanda, può esserci di grande aiuto quanto ha osservato Marie Louise Von Franz in molti suoi pazienti, non solo in relazione all’anoressia, ovvero sia una “riserva mentale” verso la vita. Con questa espressione, “riserva mentale”, l’Autrice intende un volerci essere e un non volerci essere allo stesso tempo, uno stare dentro un qualcosa co-esistente con il desiderio di non volerci sostare, un volersi impegnare ma senza riuscire e/o volerlo fare – per paura in primis – fino in fondo, l’essere in un luogo preciso in un certo momento mai disgiunto dallo stare mentalmente anche in un altrove lontano, e via dicendo. Per far cogliere meglio il suo pensiero su questo punto, la Von Franz si sofferma nel suo saggio sul “Puer Aeternus” sul personaggio centrale, il bambino venuto da altrove, de “Il Piccolo Principe” delineato da Antoine Saint Exupéry. A suo dire questo “piccolo principe” è emblematico di questa riserva mentale verso l’esistenza, perché sempre lì pronto a flirtare troppo da vicino con una figura ambigua come quella del serpente, il quale, appena si incontrano, gli ricorda come con un solo morso possa mandarlo lontano e risolvergli in tal modo tutte le difficoltà. E questa possibilità psichica, questa carta di riserva sempre in tasca, alletta il Piccolo Principe, ma ciò, a giudizio della stessa Von Franz, è anche quanto gli impedisce di stare veramente nella partita della vita. Ha scritto l’Autrice: “Vivendo con l’idea che è possibile sfuggire alla vita, mutiliamo la possibilità di vivere pienamente perché per farlo dobbiamo essere pronti a lasciarci coinvolgere pienamente.” E questa è un’Ombra bella e buona dal punto di vista psicologico, perché è un giocare troppo pericolosamente con la morte, aspetto quest’ultimo di cui “Il Piccolo Principe” pare rendersi poco conto. In effetti è come se non vedesse questo lato di sé, non a caso poi opta proprio per il morso del serpente.

Talvolta nell’anoressia, con tutte le dovute cautele e differenze, si osserva qualcosa di simile. Per esempio, lo si può rilevare prestando attenzione ai sogni. Non di rado durante il lavoro analitico capita di notare come in un sogno di una paziente anoressica non compaia una reazione, che ci si aspetterebbe, davanti ad immagini oniriche forti quali potrebbero essere quelle in cui appaiono bestie feroci pronte ad aggredire la sognatrice. Immagini che lasciano perplesso chi le ascolta, non tanto per il contenuto quanto appunto per la mancata reazione del sognatore, e che possono essere intese come una possibile spia di quella che Von Franz definisce “riserva mentale” verso la vita, come se quest’ultima non avesse poi tanto valore. Brevissimo inciso: per fortuna il sogno permette di vedere, di mostrare ciò, e questo è di grande aiuto in genere per la persona anoressica.

Continuando sul rapporto tra riserva mentale e anoressia, potremmo anche chiederci: “In che modo tale concetto, al di là del suo modo di manifestarsi tramite immagini oniriche, tende a concretizzarsi nella vita di una persona anoressica?” Proprio nel rapporto con il corpo potremmo risponderci. La persona anoressica gioca un pochino troppo con esso, nega in un certo senso che abbia delle esigenze autonome, finisce con il trascurarlo e ciò le fa perdere un senso di vitalità dal quale è parzialmente attratta.

Quando parliamo – tutti – diciamo “ho fame” come se la testa e il pensiero da un certo momento in poi decidessero di avere fame, quando in realtà è il nostro corpo, il nostro stomaco, a farci percepire che abbiamo fame. Sarebbe più corretto da un punto di vista esperienziale dire: “Mi è presa la fame”; “Sono stato assalito dalla fame”; ect… e non “Ho fame”. Naturalmente per tantissime persone tutto ciò è solo una mera questione linguistica, mentre nell’anoressia non è esattamente così, è come se tale linguaggio riflettesse l’esperienza psicologica del voler dominare il corpo. Se una persona può sentirsi libera, come nel caso dell’anoressia, di poter controllare in toto l’appetito, può sentirsi anche padrona di continuare a dire agli altri e a sé stessa in primis di non avere fame alcuna. Come se fosse appunto solo la testa a decidere, a comandare, senza avere in alcun conto il parere del corpo. Da quest’angolazione, possiamo affermare che nell’anoressia la testa gioca con il corpo. Se si preferisce, che la psiche tende a giocare con la materia. Ma va da sé che tale relazione psicologica tra mente e corpo, o tra psiche e materia, non è sostenibile a lungo termine, se non pagando il prezzo altissimo che l’anoressia comporta. Il corpo non è difatti un oggetto di cui si può disporre a piacere, è per alcuni versi molto più simile ad un soggetto: ci dice che abbiamo fame, ci segnala il dover dormire, ci fa cogliere inequivocabilmente la stanchezza o il desiderio di sessualità, e via dicendo. In altre parole, è portatore di desideri, di appetiti, di limiti.

Ma forse il punto nevralgico per la persona anoressica è proprio quello dei limiti, che in qualche modo pare soffrire decisamente, perché è come se in ella albergasse un’esigenza di perfezionismo. Non a caso le persone anoressiche ricordano vagamente le sante anoressiche del passato. Il perfezionismo rispetto al cibo si tramuta in un controllo serrato delle calorie ingerite e consumate, in peso da non prendere, in centimetri da non aumentare, ma, a ben vedere, il tratto perfezionistico è qualcosa di più generale nella vita psichica della persona anoressica, di non riconducibile al solo rapporto con il cibo. E’ un qualcosa che riguarda il rapporto con il mondo, che cela la volontà ferrea che tutto quadri, che tutto sia coerente, che tutto sia ad opera d’arte e senza sbavature, che tutto, in sostanza, coincida con un ideale di perfezione che finisce però con il negare ogni piccolo piacere. Perché in fin dei conti negare il cibo e la fame vuol significare negare anche il più piccolo piacere.

Si può uscire da tutto ciò? Ci sono buone possibilità e paiono legate al passare psicologicamente da un ideale di perfezione ad uno di completezza. Carl Gustav Jung ci ha aiutato a comprendere la differenza tra perfezione e completezza. La perfezione è unilaterale, è iper-specialistica, consiste nello sviluppare al 100% una capacità o una funzione. Per esempio, una tecnica ingegneristica di costruzione potrebbe essere ritenuta perfetta o comunque vicina al massimo risultato raggiungibile. La perfezione, di per sé, rimanda ad un crescere continuo, ma sempre nella stessa direzione. E’ qualcosa di paragonabile ad una freccia che si muove sempre verso lo stesso lato. La seconda, la completezza, è invece un fenomeno più rotondo, più morbido. E’ più paragonabile ad un cerchio anziché ad una freccia. Se immaginiamo il tutto a livello psicologico, e se immaginiamo l’uomo come dotato di un insieme di lati-parti, possiamo dire che la completezza cerca di farli ruotare tutti quanti, mentre la perfezione per sua natura è portata a farne crescere uno il più possibile, tralasciando, anche non volendo, gli altri. La perfezione lascia indietro, la completezza, essendo circolare, contiene tutto, punta ad un’evoluzione, ma non elimina nulla. La perfezione punta verso l’alto, rende l’uomo simile ad una macchina efficiente, lo robotizza; la completezza lo umanizza perché gli ricorda che è fatto, oltre che di parti forti, anche di paure, di fragilità, e di parti zoppicanti, da cui possono tuttavia nascere quelle qualità che sono tra le più grandi ricchezze dell’Uomo, cioè sensibilità e empatia verso sé stesso e verso i suoi simili, e che in ultima istanza sono quelle caratteristiche che hanno sia il pregio di rammentarci il nostro essere terreni, sia il grande merito di aiutarci a comprendere che siamo tutti sulla stessa barca. E a ben guardare ciò costituisce in genere un enorme toccasana.

Nel caso specifico dell’anoressia, la completezza ha il potere di ricordare alla persona anoressica che è solo un animale, magari evoluto, tra gli animali. A pensarci bene, nessuno animale avrebbe mai il pensiero di voler eliminare il corpo, la persona anoressica se potesse lo farebbe. Il che implica che non ha una buona relazione psicologica con l’istintività animale presente nell’uomo, con quanto probabilmente giudica inferiore e becero istinto: la perfezione suggerirebbe di eliminare quanto non gradito, la completezza di accettarlo. E riuscire veramente a farlo per la persona anoressica rappresenterebbe un primo grande passo verso uno stare complessivamente più in pace con sé stessa.

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