Scuola, Famiglie, Personalità dell’Insegnante

Scuola, Famiglie, Personalità dell’InsegnanteNegli ultimi decenni la società è mutata profondamente, si è trasformata, per ricorrere ad una felice definizione di Zygmunt Bauman, da solida in liquida. Ovvero si è liquefatta la fermezza, se si vuole la rigidità, di istituzioni educative e non volte a determinare il comportamento degli individui in favore di una maggiore fluidità che garantisce una maggiore libertà di scelta personale, ma anche una maggiore responsabilità individuale che talvolta risulta disorientante. Basti pensare a come sono cambiate le famiglie dal dopoguerra ad oggi, non più ormai caratterizzate da una certa distanza tra genitori e figli e da una rigida divisione dei ruoli, bensì da una condivisione, talvolta anche eccessiva, tra genitori e figli e da una interscambiabilità nei ruoli genitoriali fino a pochi decenni fa realmente inimmaginabile.Tale mutazione della società, senza starne qui ad analizzare vantaggi e svantaggi, trova un suo corollario psicologico nel modo in cui si è evoluto nel tempo il rapporto che si ha con l’autorità. In un  saggio ampio e documentato, qual è “Il Gesto di Ettore”, Luigi Zoja mostra come nel corso dei secoli, ma con una decisa accelerazione negli ultimi decenni, l’autorità da verticale sia diventata orizzontale. In termini concreti ciò vuol significare che un padre, figura storicamente di autorità, non viene più rispettato in quanto padre, ma solo se riesce a conquistarsi sul campo autorevolezza e rispetto da parte dei figli. E’ scomparso il padre che siede a capotavola o decide cosa vedere in TV semplicemente in quanto suo diritto naturale, per lasciare il posto ad un padre che può trasmettere valori e insegnamenti solo dopo aver dimostrato qualcosa di significativo nella lotta della vita e nella relazione con il figlio. In sostanza, la parola del padre non nasce più autorevole, ma può  divenirlo.

E se si è trasformata l’autorità paterna, per estensione tale cambiamento ha toccato in maniera più o meno evidente ogni forma di autorità: i partiti politici, le istituzione repubblicane, le famiglie, anche la Chiesa se si vuole, non sono più guide autorevoli, riconosciute da tradizioni storiche, bensì strutture, che non diversamente dai padri, devono dimostrare agli occhi dei singoli individui di meritare di essere considerate fonti autorevoli. E la scuola? Naturalmente tutto ciò lambisce profondamente anche la scuola. Senza entrare in dettagli legislativi, nel corso degli anni i genitori, certamente anche perché prestano molta più attenzione d’un tempo verso la crescita e l’educazione dei figli, sono “entrati” molto di più nella scuola. Sentono l’esigenza di far sentire la loro voce sui programmi, sulla qualità della didattica, senza accettare passivamente quanto proposto dall’autorità scuola-insegnanti. Matteo Bussola nel suo denso “Sono Pure I Loro Sogni”, dedicato al rapporto genitori-scuola, fa notare come molte volte il sano diritto/desiderio di partecipazione dei genitori si tramuti in un’iperprotezione [1] verso i ragazzi. Così può succedere che un brutto voto venga contestato duramente, che un insegnate non gradito venga messo sulla graticola, che una bocciatura, ritenuta inaccettabile, si tramuti in una battaglia giudiziaria. Naturalmente non sempre si raggiungono tali livelli, tuttavia tali evenienze non sono neanche così rare. Chiunque ha figli che frequentano scuole elementari e/o medie potrà facilmente confermare di aver vissuto o sentito qualche situazione del genere. In termini maggiormente psicologici, è come se la relazione insegnanti-genitori, anziché essere attraversata da fiducia, fosse talvolta dominata da un clima di non fiducia e sospetto. Anche perché gli insegnanti a loro volta, sentendo troppo il peso delle richieste e delle pressioni delle famiglie, finiscono con il chiudersi difensivamente sul loro operato. In altre parole, la relazione insegnati-genitori, e per esteso scuola-famiglia, è come se rischiasse sovente di finire in un circolo vizioso di accuse e recriminazioni reciproche dal quale è poi difficile dipanarsi, a tutto discapito dello studente e dell’autorevolezza della scuola nel suo complesso.

Cosa fare? Cosa proporre per evitare tutto ciò? Certamente gli incontri tra scuola e famiglie per riflettere su tali dinamiche del sistema scuola, così come conferenze di esperti che aiutino a cogliere le difficoltà educative che incontrano gli adulti in genere, possono essere utili e preziosi momenti in grado di creare un rapporto di maggiore fiducia e collaborazione reciproca. In questo breve articolo, che non ha nessuna pretesa di esaustività, mi sia consentito tuttavia di rispondere alle domande di poc’anzi facendo cadere la mia attenzione su quanto può cercare di fare l’insegnate [2] in tutto ciò. L’insegnante per recuperare l’autorevolezza perduta dovrebbe avere egli stesso un rapporto sentito, e il coraggio di mostrarlo, con la materia che insegna. Se un professore insegna italiano dovrebbe coltivare un rapporto intenso e personale con il leggere, lo scrivere, con la letteratura. In altre parole, la letteratura non può non avere un posto di primo piano nella sua vita e nel suo modo di stare in classe. Un insegnante di arte può trasmettere l’importanza dell’arte solo se l’arte costituisce per egli stesso una passione e un fuoco da tenere acceso. Solo cosi’ può trasferire qualcosa su quella materia, perché essa significa qualcosa per la sua personalità. Idem per altre materie, e altri insegnanti. E difficile trasmettere qualcosa di religione se non si ha qualche propensione spirituale e di fascino verso il sacro, così come non si possono ridurre la musica e la matematica ad un insieme sterile di note e numeri. In parole sintetiche, l’insegnante oggi non può limitarsi a conoscere gli aspetti tecnici della sua materia. Non è sufficiente la sola competenza, anche se questa è una conditio sine qua non della sua professione. Tutto ciò implica, osserva con acume Vittorino Andreoli, che c’è una differenza sottile ma importante tra fare l’insegnante ed esserlo. Sia subito permesso di chiarire che dicendo ciò non si vuole affatto essere critici verso gli insegnanti, perché insegnare è un lavoro veramente difficile, e tra l’altro stiamo attraversando un periodo storico in cui la società tende a svalutare la scuola [3], bensì si vuole aiutare l’insegnante a cogliere, nel caso in cui ce ne fosse bisogno, l’importanza capitale del suo ruolo. Tornando sulla distinzione tra fare l’insegnante ed essere un insegnate, possiamo quindi dire che essa sott’intende l’essere disposti a donare e a mostrare quel che si è intimamente maturato rispetto al proprio sapere. Significa metterci quel qualcosa di proprio in più per andare oltre una lezione nozionistica, significa trasmettere l’idea che una materia di studio non è un oggetto morto, bensì un qualcosa di vivo che può aiutare a crescere ogni ragazzo. Significa divenire agli occhi dello studente non un semplice insegnante, bensì un Maestro, ovvero qualcuno che viene riconosciuto dal basso come punto di riferimento dai ragazzi, e che così facendo fornisce anche un suo contributo a riportare le famiglie nel credere nell’istituzione scuola.

[1] Sintomo di tale iperprotezione, osserva acutamente Bussola, sono le chat WhatsApp a cui partecipa ogni genitore. Paiono spesso uno sfogatoio, nel quale i genitori tendono a firmarsi come madre di, padre di, rinunciando al proprio nome di battesimo come se si esistesse in funzione del figlio.

[2] Anche per la banale ragione che il parlare delle famiglie richiederebbe uno spazio estremamente ampio e un approfondimento specifico.

[3] Bati pensare allo stato di abbandono e degrado in cui versano i nostri istituti scolastici.

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