Scuola, Insegnanti, Burn-Out

Una ricerca piuttosto ampia realizzata qualche anno addietro dall’’Università “La Sapienza” di Roma volta ad indagare la presenza di burn-out negli insegnanti di scuole elementari, medie, e superiori, ha rivelato che il 31% dei docenti [1] ha sperimentato almeno una volta durante la carriera professionale un periodo di burn-out. Sempre da questa ricerca è emerso come il burn-out sia una condizione di pesante e faticosa demotivazione verso il lavoro in grado di colpire in maniera trasversale maschi e femmine, a prescindere dal grado di scuola in cui lavorano, e che ha più possibilità di manifestarsi in coloro che prestano servizio presso la scuola da più anni.

Numeri così significativi hanno naturalmente portato tutti coloro che si occupano a vario titolo di scuola ad approfondire e a studiare il fenomeno burn-out, perché risultati del genere non si possono riduttivamente spiegare, anche se ciò contiene certamente del vero, osservando che il mestiere di insegnante è tra le professioni di aiuto, che quindi di per sé espongono a malattie professionali, quella che richiede il contatto emotivo più stretto con l’utenza con cui si ha a che fare essendo essa caratterizzata da relazioni quotidiane e intensissime con bambini e ragazzi in formazione per tre-cinque anni. Come detto, ciò può essere in parte veritiero, ma assolutamente insufficiente per comprendere appieno il burn-out. Di qui, come si diceva poc’anzi, il proliferare di studi. Alcuni dei quali si sono soffermati a riconoscere, perché non sempre è facile farlo, il burn-out, mentre altri hanno posto l’attenzione sulle cause scatenanti di tale condizione che afferra lo spirito del docente.

Rispetto al come riconoscere precocemente la sindrome burn-out, lo studioso Vittorio Lodolo D’Oria, tra i principali esperti in materia nel nostro paese, ha stilato un elenco di 27 indizi di burn-out tra i quali spiccano le numerose assenze lavorative ingiustificate, la stanchezza cronica, la sensazione di fallimento personale e professionale, una certa rabbia verso il sistema scuola e la perdita di sentimenti positivi verso il proprio lavoro e verso i propri studenti.

Gli studi che si focalizzano invece sulle cause del burn-out rintracciano una serie di fattori organizzativi che vanno ad incidere negativamente sul modo in cui l’insegnante può vivere il proprio rapporto psicologico con la sua scuola e con i suoi studenti. Tali fattori organizzativi, seppur numerosi, è possibile suddividerli in due sottoclassi che riguardano aspetti diversi del sistema-scuola: alcuni, infatti, sono ascrivibili alla struttura ambientale stessa della scuola, mentre altri sono legati alle relazioni interpersonali e umane che attraversano il mondo scuola.

Tra le cause strutturali della debacle della scuola in genere troviamo le classi pollaio, dove di fatto è quasi impossibile tenere lezione; le richieste di programma impossibili da seguire perché i programmi stessi paiono infiniti; degli stipendi veramente bassi, se si considera che si tratta di un lavoro dove è sempre richiesto di dedicare la giusta attenzione a 20-25 bambini/ragazzi contemporaneamente; la mancanza di stabilità professionale, ovvero il ritrovarsi per tanti anni supplente senza mai godere di certezze lavorative; ambienti fisici degradati e rumorosi che non facilitano affatto la concentrazione; e via dicendo. Poi ci sono cause legate alla qualità delle relazioni umane dentro la scuola, e in questo articolo vorremmo sottolineare con forza questo aspetto perché è con ogni probabilità quello che ha il peso specifico maggiore nel determinare il burn-out in tanti insegnanti. Leggendo la già citata ricerca de “La Sapienza”, si può notare come molti insegnanti si sentano lasciati soli dalla dirigenza della scuola e dai colleghi. Molti insegnanti lamentano una dirigenza della scuola [2] lontana e impegnata a coordinare orari e a far quadrare numeri. Numeri che diventano quasi un “trappola” per la scuola: per avere finanziamenti pubblici un istituto deve avere tanti iscritti e avviare progetti, talvolta neanche così necessari per la formazione dei ragazzi, con il rischio che la scuola anziché essere educativa si trasformi in “seduttiva”. Per essere più pragmatici, facciamo un breve esempio: pensiamo a quelle scuole ubicate in piccoli paesini che per non chiudere i battenti iniziano a sposare una logica “aziendale” per risultare appetibile per i ragazzi e per le loro famiglie. Così, una scuola inizia ad organizzare un corso pomeridiano di inglese, senza avere i docenti specializzati per farlo; oppure organizza corsi di musica, ma poi non dispone di sale musicali insonorizzate e con gli strumenti minimi necessari; oppure evita qualunque bocciatura, o più in generale discussioni di qualsiasi genere con le famiglie, per questo terrore di perdere iscritti. In sostanza, i vertici dell’istituto, schiacciati dal dover raggiungere numeri e risultati spendibili sul “mercato” della formazione, puntano più che altro a raggiungere una sopravvivenza dell’istituto stesso. Così operando, però, l’organizzazione scolastica rischia di mandare allo sfacelo i suoi insegnanti i quali si trovano soli dinanzi al paradosso del dover fare senza poi però essere nelle condizioni di poter fare. Immaginiamo un insegnante di musica che lavora in una scuola che non ha neanche un pianoforte a disposizione, oppure un insegnante di arte che non ha la possibilità di utilizzare materiali e laboratori: entrambi sono di fatto pressocché impossibilitati a svolgere con dignità e cura il proprio lavoro. Questi sono solo due esempi, ma tantissimi insegnanti sentono di essere soli dinanzi a queste incongruenze della scuola e sentono una certa solitudine anche dinanzi alle critiche che poi inevitabilmente arrivano o arriveranno dalle famiglie dei ragazzi per questa mancata didattica. E tutto ciò ha un peso per l’insegnante.

Questa scuola così aziendale attenta al mercato ha perso la capacità di volare alto, come vedremo a breve, e ciò ha inevitabili conseguenze psicologiche per la scuola e sui docenti. A crollare, in primo luogo, è stata l’autorevolezza dell’istituzione Scuola e del suo corpo docente. Chi è autorevole sta in alto, nel senso che sa assumere una posizione alta, sa coltivare degli ideali, mentre la scuola pare aver smarrito questa capacità. Senza autorevolezza per la scuola e per gli insegnanti ogni aspetto della formazione diventa difficile. Per esempio, la scuola con una prospettiva più aziendale insiste tanto sul fatto che i ragazzi debbano imparare un lavoro a scuola. Non che questo non sia importante, ma riducendosi solo a questo la scuola perde di importanza, sia perché è evidente che un lavoro lo si apprende anche al di fuori del contesto scolastico, sia perché ponendo questa enfasi eccesiva sul lavoro la scuola rinuncia alla possibilità di incidere sulla formazione più ampia di un individuo in crescita.  Piero Angela, grandissimo scienziato e divulgatore che non ha bisogno di presentazioni, riflettendo sulla nostra scuola a tal proposito ha osservato: “Cosa ce ne facciamo dei ragazzi che prendono 10, 9, 8 a scuola se non sono in grado di intervenire quando viene fatto del male ad un compagno, quando hanno prestazioni eccezionali, ma non hanno strumenti per aiutare un loro amico e riconoscere un bisogno. Si punta troppo sulle prestazioni eccezionali e troppo poco sui sentimenti, troppo egoismo e impoverimento emotivo. Un figlio deve prima diventare un uomo inteso persona con valori.”

Paradossalmente, a risentire maggiormente di questa scuola che rinuncia a trasmettere un’educazione emotiva e valoriale più ampia, sono poi proprio quegli insegnanti più idealisti, che avvertono anche più di altri la necessità interiore di volare alto, a percepire il loro lavoro come tarpato, non libero, riduttivo, castrato. Questa tipologia di insegnanti sente che potenzialmente potrebbe dare, ma in realtà sa che non può dare. E ciò è veramente frustrante e deleterio dal punto di vista psicologico, perché in moltissimi casi sarebbe proprio il coltivare una dimensione ideale che permetterebbe di reggere l’impatto di tante difficoltà strutturali della scuola che vanno, come abbiamo visto, dalle classi pollaio agli ambienti rumorosi e degradati e che non risparmiano l’aspetto economico della professione insegnante. In altre parole, senza la “certezza” interiore di stare a partecipare e a contribuire a qualcosa di importante, ovvero la crescita umana dell’individuo, per molti insegnanti crolla tutto.

In un’intervista condotta dal “Sunday Times” il 17 Luglio del 1960 a Carl Gustav Jung fu chiesto quali fattori potessero essere ritenuti basilari per la felicità interiore dell’uomo. Il grande psicologo e pensatore svizzero rispose elencandone 5: una buona salute fisica e mentale; relazioni personali e intime soddisfacenti; la capacità di percepire la bellezza nell’arte e nella natura; un livello di vita e di lavoro soddisfacente; ed infine l’avere un punto di vista filosofico o “spirituale” che possa permettere di affrontare le vicissitudini della vita. Parole che risuonano in ognuno di noi, e che possono adattarsi benissimo a coloro che insegnano, i quali non possono proprio fare a meno di avere una filosofia, intesa come visione etica del proprio ruolo, che gli permetta di reggere l’urto di tante situazioni frustranti.

Detto ciò, che visione potrebbe allora avere la scuola? Una visione che vada oltre un sapore puramente tecnico. Per esempio, possiamo immaginare che chi insegna arte debba nutrire la consapevolezza che non sta solo insegnando un insieme di tecniche di disegno e pittoriche, ma che stia anche educando alla bellezza in senso lato; oppure che chi insegna italiano non sta solo facendo conoscere la struttura e le regole di una lingua, ma stia anche predisponendo gli strumenti per comprendere il mondo che circonda; oppure che chi insegna una lingua straniera non si sta limitando a far avvicinare ad una lingua sconosciuta, ma stia anche facendo dei passi di curiosità e di apertura verso gli altri; oppure ancora che chi insegna matematica non è solo impegnato nello spiegare un insieme di operazioni algebriche, ma stia anche tentando di far sviluppare un certo tipo di logica; o ancora che chi insegna filosofia non sta solo illustrando il pensiero dei vari autori, ma stia anche cercando di far sviluppare un pensiero critico; oppure ancora che chi insegna musica non si sta riducendo a far leggere la musica, ma stia anche predisponendo l’animo ad un certo tipo di ascolto; oppure infine che chi insegna religione non sta solo elencando un insieme di precetti e dogmi, ma stia anche aprendo al trascendente e all’infinito. Una scuola, in sintesi, che sappia parlare, nel senso più nobile del termine, all’Uomo presente in ogni bambino e ragazzo. Perché forse è solo volando alto che la scuola e gli insegnanti possono salvare sé stessi e contemporaneamente accendere negli studenti quella voglia di conoscere e sapere che può aiutarli realmente a capire chi sono e cosa vogliono fare da grandi.

[1] Questa interessantissima ricerca è consultabile integralmente sul sito di “orizzonte scuola.”

[2] Non è nostra intenzione processare i dirigenti scolastici perché spessissimo anche la vita professionali dei presidi non è per nulla facile, essendo non di rado impegnati a gestire e a barcamenarsi tra 3-4 istituti contemporaneamente.

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