Depressione o Tristezza?

depressione-o-tristezzaNel corso degli ultimi anni numerosi studi volti ad analizzare l’effettiva utilità dell’uso di farmaci anti depressivi nel trattamento della depressione, hanno riscontrato come questa variegata classe di psicofarmaci abbia frequentemente la stessa efficacia di semplici farmaci placebo. Tralasciando dettagli tecnici da addetti ai lavori, consultabili comunque sull’ “Annals of Family Medicine” del Gennaio 2015, è interessante cercare di capire come interpretare questi dati. Non funzionano i farmaci, oppure ricorrere al loro uso sarebbe indicato solo in talune circostanze? Dal nostro punto di vista, è molto più verosimile la seconda ipotesi presente nella nostra domanda. Gli studi accennati poco sopra in particolare mostrano che gli antidepressivi non raggiungono risultati diversi da farmaci placebo soprattutto in quei casi considerati, da questi stessi studi, di “depressione leggera”; mentre manifestano una certa rilevanza clinica nei casi etichettati come forma di depressione “grave”. Tali conclusioni, ci permettono di avanzare l’interpretazione che non sono i farmaci ha non avere efficacia in sé, quanto il fatto che vengono somministrati in occasioni in cui non sarebbero richiesti. Questa eccessiva somministrazione si verifica perché la diagnosi di depressione è spesso sovrastimata. Detto in altre parole, molte volte accade che periodi di tristezza vengano diagnosticati al pari di un episodio di Depressione Maggiore. Non a caso, in Tv o su Internet, si è spesso soliti parlare della depressione come un fenomeno che colpirebbe il 20% della popolazione generale. Un’enormità. Proviamo a vedere come tale sovrastima di diagnosi può verificarsi. Il principale Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentale, anche nella versione più recente del DSM V, classifica la depressione tra i disturbi dell’umore in base ad un criterio temporale, ovvero sia i sintomi devono persistere per almeno due settimane, e in presenza di almeno 5 dei 10 sintomi*(1) indicati senza che quest’ultimi possano essere spiegati da altra condizione medica. Gli estensori del DSM V, ben conoscendo il problema della sovrastima della diagnosi, hanno cercato di introdurre dei correttivi diagnostici che potessero arginare tale difficoltà. Hanno, per esempio, ritenuto necessario attribuire maggior “peso specifico” ad alcuni dei sintomi elencati, più precisamente tra i 5 sintomi minimi per la diagnosi deve necessariamente comparire o “l’umore depresso”, o “la perdita di interesse e piacere”; oppure hanno considerato alcune condotte particolari, quali l’umore disforico di alcuni adolescenti e di talune donne in fase pre-mestruale come condizioni diagnostiche a sé stanti; oppure ancora hanno redatto una guida che aiuti nel valutare il reale intento suicidario. Nonostante questi accorgimenti, difficilmente il DSM V riuscirà a correggere totalmente l’effetto di sovrastima della diagnosi di depressione. La depressione non può essere riconosciuta e sufficientemente differenziata da altro, in primis la tristezza, solo attraverso criteri descrittivi. Volendo anche una persona triste potrebbe avere scarso appetito, poco sonno perché preoccupata, agitata a livello motorio, o apparire priva di energia e vitalità. Come è già stato è stato osservato da molti psicoanalisti, si veda a tal proposito il bel libro di Nancy McWilliams (1994) “La Diagnosi Psicoanalitica”, in un ambito tanto delicato una diagnosi non può trascurare il funzionamento interno di un individuo, non può cioè non cercare di rispondere alla domanda sul “come” funziona quella persona. Mentre il DSM, focalizzandosi molto sul comportamento e su quanto appare esternamente, pecca rispetto al cogliere la struttura interna di un individuo e pertanto fatica nel differenziare una condizione di depressione da una di non depressione. Gli psicoanalisti, e va detto anche tanti psichiatri non legati ad un’ottica esclusivamente biologica e comportamentale, per cercare di cogliere il funzionamento interno di un individuo, e per ovviare ai limiti della prospettiva principalmente descrittiva del sistema diagnostico maggiormente in uso, prestano attenzione ed ascolto al vissuto interiore del paziente. L’ascolto del vissuto permette di distinguere con maggiore sicurezza tra depressione e tristezza, e qui in maniera un pochino didascalica, ci piace ricordare alcuni elementi qualitativi, segnalati dalla clinica psicoanalitica, che aiutano nel capire quando si è realmente davanti ad una depressione:

  • La persona triste è tendenzialmente più accogliente verso i tentativi di aiuto che riceve, rispetto alla persona depressa. Quest’ultima, molte volte, chiede aiuto, ma soventemente lo rifiuta. In un certo senso la persona depressa vive male i tentativi di aiuto, spesso è come se ritenesse di non meritarlo, di non esserne degna.
  • La persona triste è psicologicamente incentrata sull’evento che l’ha posta in crisi (qualunque esso sia), mentre la persona depressa si rivolge maggiormente al passato. “Se avessi fatto questo, se avessi fatto quest’altro…”, sono le espressioni tipiche di un passato che si fa via via più ingombrante.
  • La persona depressa tende a vivere la sua condizione come un vicolo buio senza uscita, è come se si percepisse senza speranza, elemento quest’ultimo che, se anche non proprio in salute, non è del tutto assente nella tristezza.

Infine, ma non per un fattore di importanza, è da notare come alcune fasi della terapia con una persona depressa si caratterizzino per una certa tonalità che colora il campo, cioè lo spazio psichico tra paziente e analista, della relazione analitica: una sensazione di sprofondare, con la quale la terapia deve inevitabilmente misurarsi. Si permetta il ricorso ad un esempio per spiegare meglio questo punto. Un momento tipico in cui viene richiesto un consulto psicologico è quello in cui una persona è stata appena lasciata. Il classico momento in cui tutti, umanamente e comprensibilmente, ci sentiremmo giù. Si può provare rabbia, delusione, dolore, ci si può sentire traditi, feriti, in una sola parola tristi. Nei casi in cui una ferita del genere suscita depressione, e non solo tristezza, è presente tuttavia anche qualcosa in più. La persona non può limitarsi ad elaborare, a farsi una ragione di quanto accaduto. A capire le proprie e altrui responsabilità. Deve fare anche questo, ma non basta. Perché la persona sente che non è semplicemente finito qualcosa, ma è come se fosse morto internamente qualcosa. Per qualche ragione, quella relazione era stata investita al punto da farla coincidere con la vita, con il senso della vita. Finito ciò, è come se fosse tutto spento. In un certo senso nella depressione è come se si fosse in presenza della “morte” di un determinato modo di fare e di essere, non così nella tristezza. La depressione è pervasiva, tocca in profondità, scuote l’intera personalità. Per tale ragione fa sprofondare, mentre la tristezza è meno perforante. Fa male, ma non ha questa capacità di incendiare tutto come la depressione. In poche conclusive parole, la persona triste deve affrontare un evento duro, una persona depressa deve trovare un nuovo modo per sentirsi viva.

*(1) I 10 criteri presi in considerazione sono:
• Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno;
• Marcata diminuzione di interesse o piacere (anedonia) per tutte, o quasi tutte le attività, per la maggior parte del giorno;
• Perdita di peso significativa in assenza di diete o aumento di peso (ad esempio può essere significativa una variazione del peso corporeo superiore al 5% nell’arco di un mese), o riduzione/aumento dell’appetito quasi ogni giorno;
• Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno;
• Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno;
• Fatica o mancanza di energia quasi ogni giorno;
• Perdita di energia;
• Sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati quasi ogni giorno;
• Ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione quasi ogni giorno;
• Pensiero ricorrente di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, oppure tentato suicido o piano specifico per suicidarsi;

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