Il vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli definisce la parola “crisi” come “una perturbazione o improvvisa modificazione nella vita di un individuo o di una collettività”. Il termine crisi implica di per se dei cambiamenti, e la necessità, per chi vuol superare la crisi stessa, di cambiare e di sapersi trasformare. Da questa prospettiva l’adolescenza costituisce una crisi esistenziale che non può essere elusa. L’adolescenza può essere infatti paragonata ad una seconda nascita piuttosto critica: il corpo muta, si svegliano le pulsioni sessuali, sorgono interessi prima sconosciuti, quali la politica o la religione, legati per lo più allo sviluppo del pensiero astratto, si avverte il bisogno di differenziarsi dai genitori, c’è voglia di autonomia alternata a bisogni di dipendenza, ma soprattutto ci si inizia a porre domande sul chi si è e dove si vuole andare.
Un importante psicoanalista, Erik Erikson, ha descritto l’adolescenza come un periodo di sospensione tra “il non più e il non ancora”, nel senso che non si appartiene più al mondo dell’infanzia ma non si è ancora parte del mondo degli adulti. Nel descrivere l’adolescenza, Erikson, è ricorso ad una metafora che secondo egli coglie bene l’essenza di questa “crisi fisiologica”: l’immagine di un acrobata che ha lasciato il primo trapezio senza essere ancora giunto al secondo. Se tutto va per il verso giusto, l’adolescente afferra il secondo trapezio e compie la sua traversata, se non tutto va bene, cade. Nel cadere, hanno osservato Gallerano e Zipparri (2011), due esperti analisti italiani contemporanei, bisogna vedere di che tipo di rete di protezione dispone l’adolescente: ovvero bisogna verificare come la rete dell’adolescente, sarebbe a dire il complesso intreccio formato da persone supportanti e dagli strumenti psichici di cui dispone l’adolescente stesso, riesce a reagire all’urto della caduta. In sostanza, se la rete dell’adolescente non riesce a reggere l’impatto della caduta, la fisiologica crisi adolescenziale diviene pericolosa.
Uscendo dalla metafora dell’acrobata e della rete, possiamo dire che con l’adolescente è necessario un intervento psicoterapeutico nel momento in cui la vita lo porta ad erigere una personalità strutturata in maniera rigidamente difensiva. Prendiamo l’esempio di un ragazzo bullo e di una ragazza anoressica: in entrambi i casi si è dinanzi ad una negazione. Nel bullismo viene negata l’importanza dell’altro, nell’anoressia viene negato il corpo, ovvero se stessi e la vita. Il bullismo si caratterizza per il volere arrecare intenzionalmente e ripetutamente un danno ad un’altra persona. E’ un voler far male ricercato e senza giustificato motivo. In letteratura psicologica, il ragazzo bullo viene descritto come privo di empatia e sensi di colpa per quanto procura all’altro: ma come è possibile ciò? Certamente alcuni casi di bullismo possono essere spiegati con il fatto che l’adolescente bullo può essere cresciuto in un ambiente abitualmente violento, ma vista la diffusione del fenomeno (basti pensare che una recente ricerca svolta dall’università di Firenze ha trovato che in media nelle scuole italiane medie e superiori circa il 40% degli alunni è stato almeno una volta oggetto di bullismo), ci deve essere dell’altro. E’ come se il bullo cercasse un’indipendenza assoluta, che è evidentemente difensiva: quale adolescente, maschio o femmina che sia, non ha fame di relazioni e voglia di stabilire contatti umani con i suoi coetanei? Nell’anoressia c’è invece l’uccisione del corpo, che talvolta si concretizza con la morte reale. Il corpo, con le sue pulsioni e istinti, deve essere vissuto così male che la ragazza riesce ad affrontare il tutto rifugiandosi nella condotta anoressica. In situazioni del genere ciò che colpisce è l’unilateralità del comportamento: il bullo non trova altro modo per affermare la sua voglia di autonomia, se non quello appunto di negare/distruggere l’altro; l’anoressica riesce ad entrare in relazione con la vita solo “giocando” con la morte. Tornando alla metafora dell’acrobata e della rete è come se l’adolescente che sviluppa una qualche condotta difensiva non tentasse più il passaggio da un trapezio all’altro, ma fosse semplicemente impegnato ad evitare un’altra caduta fonte di sofferenza. E quando l’adolescente non tenta più di compiere il suo passaggio da infante ad adulto non si può non intervenire: il rischio è quello che per evitare la fatica del crescere, legata al tumulto adolescenziale, finisca con l’avvicinarsi pericolosamente al versante della patologia psichica.