L’Alessitimia

L’AlessitimiaIl termine alessitimia, proveniente dal greco alexithymia e traducibile letteralmente con “mancanza di parole per le emozioni”, indica sostanzialmente una certa difficoltà nel riconoscere e verbalizzare le emozioni in sé stessi e negli altri. Tale parola, alessitimia, è entrata nel linguaggio psicologico pochi decenni orsono, più esattamente nel 1976, grazie al lavoro di Peter Sifneos da egli stesso presentato nell’XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche.

Al giorno d’oggi, rispetto alla stringata definizione appena citata, è patrimonio comune della psicologia e della psichiatria il fornire una descrizione dell’alessitimia capace di tenere in considerazione anche altre caratteristiche basiche di questa condizione psichica, quali una marcata incertezza nel distinguere con chiarezza i sentimenti dalle sensazioni corporee; una quasi impossibilità nell’accedere al mondo della fantasia e dell’immaginazione; e la presenza di un pensiero orientato prevalentemente verso il mondo fisico e l’azione anzichè verso l’introspezione.

Tale “gioventù” dell’alessitimia non tragga in inganno, perché, a ben vedere, la formulazione contemporanea dell’alessitimia “riassume” sia gli studi di autori interessati prevalentemente all’area psicosomatica, sia di numerosi psicoanalisti che avevano complessivamente colto lo stato mentale della condizione alessitimica senza tuttavia ricorrere a tale termine. Muovendoci all’interno della psicosomatica, possiamo ricordare come per esempio Paul Maclean (1949) descrisse alcuni pazienti psicosomatici così “poveri” nell’espressione simbolica e verbale dell’emozioni che arrivò ad ipotizzare che fossero dotati di un linguaggio organico autonomo in grado di tradurre somaticamente affetti ed emozioni. Oppure ancora come Marty e de Muzan (1963) notarono come i pazienti psicosomatici avessero difficoltà con l’essere creativi, a far uso dell’immaginazione, come se fossero bloccati da un pensiero operatorio volto verso gli aspetti concreti dell’esistenza e incapace di accedere ai vissuti interni. La psicoanalisi, d’altro canto, fin dalla sue origini si è confrontata con l’alessitimia. Il pensiero freudiano sulle pazienti isteriche e, più in generale, sulle psiconevrosi si caratterizza per la separazione tra la componente ideativa di una rappresentazione e l’affetto collegato alla rappresentazione stessa: tramite il meccanismo della rimozione, secondo Freud, la pulsione viene spogliata dalla sua componente affettiva, relegando quest’ultima nei processi somatici. Helen Deutsch (1934) osservò dei pazienti che ella definì con una personalità “come se”, sarebbe a dire dei pazienti in forte difficoltà nell’avere relazioni intime e autentiche, in buona parte incapaci di cogliere la loro identità e i bisogni profondi, e propensi ad adattarsi all’esistenza per mezzo di continue imitazioni degli altri. Donald Winnicott distinse tra un vero sé, che nasce dall’originario piacere di vivere, di sperimentare, e dal percepire il proprio corpo come vitale, da un falso sé paragonabile ad una sorta di involucro esterno non lontano dalla personalità come sé della Deutsch. Nel falso sé, secondo Winnicott, è presente una perenne scissione mente-corpo, che spesso si rileva in molti pazienti alessitimici che giungono all’osservazione clinica.

Con il passare degli anni l’alessitimia è stata posta in relazione a diverse condizioni. E’ stata per esempio osservata in correlazione con patologie somatiche, quali l’ipertensione, la diaspepsia, sia in relazione a disagi psicologici, quali i disturbi sessuali, l’abuso di sostanze, i disturbi d’ansia. Tale vasta diffusione dell’alessitimia, ha portato gli specialisti del settore a chiedersi se fosse più opportuno considerare l’alessitimia una condizione psicologica a se stante, meritevole di una categoria diagnostica specifica, oppure se fosse più verosimile ritenerla un tratto della personalità presente in ognuno, e per tal ragione diffusa in tanti quadri clinici. Questo nodo di fondo legato al concettualizzare l’alessitimia come un quadro clinico specifico o come un tratto della personalità non è stato del tutto sciolto, e sommato agli studi e alle ricerche dei vari autori nel loro complesso poc’anzi citati, si può dire che abbia condotto alla formulazione di due possibili generali teorie psicodinamiche per spiegare il comportamento alessitimico. Secondo una prima corrente di pensiero, ben sintetizzata da Mcdougall (1982), l’alessitimia è una difesa straordinariamente forte contro il dolore psichico; secondo l’altra teorizzazione, ben esposta da Krystal, l’alessitimia è la conseguenza di un arresto dello sviluppo affettivo a seguito, in genere, di un trauma infantile. Tale pluralismo teorico, dal nostro punto di vista, se può essere fonte di disorientamento a livello diagnostico può invece a permettere a livello clinico una maggiore comprensione del vissuto e della storia personale del paziente alessitimico: l’esposizione ad un trauma può aver dato origine, oltre che ad un certo arresto dello sviluppo, ad un meccanismo di difesa che se da una parte “spegne” il sentire, dall’altra permette di sopravvivere proprio al dolore del trauma. Detto in altre parole, tale pluralismo teorico è come se facilitasse il clinico nel cogliere i vari risvolti della condizione alessitimica.

Secondo Ferruccio Vigna, un importante psichiatra e psicoanalista italiano, se a tale pluralismo teorico aggiungiamo delle considerazioni sul contesto sociale in cui si inserisce l’alessitimia, giungiamo alla conclusione che pare opportuno rapportarsi clinicamente ad essa concettualizzandola al pari di una dimensione della personalità presente in maniera più o meno marcata in ognuno di noi. La nostra società richiede continue prestazioni, il dover essere produttivi e per così dire “vincenti”. Probabilmente un certo distacco emotivo è utile rispetto al reggere il peso di questa pressione [1]. Così come può essere di aiuto nel non rimanere soffocati da un numero altissimo di stimoli. Riprendendo un esempio dello stesso Vigna (2010), se non avessimo un certo distacco emotivo mentre mangiamo ascoltando il telegiornale, con tutte le notizie violente e dolorose a cui siamo sottoposti, non potremmo mangiare. Onestamente, a nostro parere, le argomentazioni di Vigna paiono più che condivisibili perché facilitano la possibilità di empatizzare e di entrare in relazione con una tipologia di pazienti che per alcuni versi paiono veramente lontani e distanti da quanto sta accadendo nella stanza analitica.

Al di là di tutte queste considerazioni sul tema alessitimia c’è da chiedersi come è possibile aiutare il paziente alessitimico, ammesso comunque che egli arrivi a consultazione. Va infatti detto che non è per nulla scontato che il paziente con un forte tratto alessitimico chieda una psicoterapia, per la semplice ragione che se è generalmente spento il suo sentire è altresì silente il bisogno di chiedere aiuto. Rispetto a tale questione, sia consentita una breve digressione che può essere di aiuto nel cogliere la prassi terapeutica con tale tipo di paziente. La persona con una dimensione alessitimica arriva generalmente a studio, o perché spinto da altri esasperati da tale modo di stare al mondo, e in tal caso è difficile che l’aiuto funzioni, o sotto il peso di sintomi di natura ipocondriaca e in tal caso si aprono degli interessanti spazi terapeutici perché in questa seconda evenienza, a differenza della prima, è ben presente una solida motivazione personale a risolvere le difficoltà che si incontrano nella vita quotidiana. In “Tipi Psicologici” Jung ritiene l’ipocondria un tentativo di una parte della psiche di richiamare l’attenzione sui processi interni trascurati attraverso un “passaggio” per il corpo. In altre parole, il corpo vissuto come fonte di preoccupazioni ipocondriache diviene una voce di dolore per riportare l’attenzione della persona su di sé.

Tornando adesso sul lavoro con la persona alessitimica, possiamo dire che l’esperienza clinica insegna che se tale ipotesi di lavoro sul valore delle preoccupazioni ipocondriache viene accettata, o quanto meno viene considerata senza pregiudizi, è più facile per ella riuscire a rientrare in contatto con il suo mondo affettivo ed emotivo. Perché significa riconoscere che la sofferenza del corpo nasconde qualcosa di altro, significa mettere in conto che dentro di sé ci sono importanti “pezzi” affettivi ed emotivi della propria storia che stanno chiedendo ascolto e che vogliono essere aiutati a trovare le giuste parole per entrare a far parte in maniera sentitamente cosciente nel fluire della propria esistenza.

Come avvicinarsi allora ad un mondo tanto sconosciuto? Per rispondere a tale questione, bisogna prima cercare di capire dove ritrovare e rintracciare affetti ed emozioni. Ha scritto sempre Jung in “Spirito e Vita”: “Un’entità psichica può essere, naturalmente, un contenuto di coscienza solo quando può essere rappresentata sotto forma di immagine” (Jung, 1926, pag. 348). Se l’immagine è lo strumento che utilizza la psiche per permettere ad un individuo di divenire maggiormente consapevole di se stesso, ciò vale a maggior ragione per emozioni ed affetti. Le immagini, chiunque di noi, può incontrarle nei sogni. Il sogno, fa notare lo stesso Jung, è essenzialmente una sequenza di immagini cariche affettivamente. In talune occasioni, in effetti, un sogno è così pieno da un punto di vista affettivo che è capace addirittura di interrompere il sonno. Basti pensare ad un incubo. Tutto ciò implica che in ambito terapeutico il lavoro con i sogni permette quindi al paziente alessitimico di ristabilire un legame con affetti ed emozioni che paiono radicalmente sepolti. A condizione che ci siano due coscienze, quella dell’analista e quella del paziente, realmente disposte ad ascoltare e a lasciarsi “toccare” da quelle immagini psichiche di autorappresentazione di sé che la psiche stessa elabora e che costituiscono un viatico per accedere ad un nuovo modo, che potremmo definire più colorato emotivamente, di sentire e di esperire quanto accade.

 

[1] A tal proposito si pensi per esempio a come la medicina in genere, e per estensione i medici, tendano a porre l’accento del loro agire sulla malattia, su un organo malato, anziché sulla persona nel suo complesso. La cultura medica è cioè incline a relazionarsi all’altro più come se fosse un oggetto da studiare che non come se fosse un soggetto portatore di una storia e di una sofferenza specifica, e ciò, se ragioniamo in termini di pressione da reggere e di emozioni da anestetizzare presenta, se il tutto rimane entro certo limiti, indubbiamente dei vantaggi.

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